Primo maggio in Ticino

Il sindacato ticinese Unia denuncia: “I lavoratori chiedeno solo giustizia”. Anche in Ticino il Primo maggio è un’occasione per dire basta alla logica del profitto e allo smantellamento sociale, per ricordare le storie di fatica quotidiana delle lavoratrici e dei lavoratori, per riaffermare la loro dignità e i loro diritti, come quello di non ammalarsi o morire a causa del lavoro.

È stata tutto questo la Festa dei lavoratori celebrata oggi nel centro di Lugano, dove al termine del tradizionale corteo si sono tenuti i discorsi ufficiali e questa sera andranno in scena quattro concerti. Ma il 1° maggio 2010 è stato caratterizzato anche da momenti di grande commozione e da testimonianze toccanti, come quella che ha dato voce alle decine di migliaia di operai e di cittadini che ogni anno, in Europa e nel mondo, muoiono a causa dell’esposizione all’amianto.

Fortunatamente risparmiate dalla pioggia, le oltre 1.500 persone che nel pomeriggio in un colorato e rumoroso corteo hanno percorso le vie del centro cittadino, sono state accolte in Piazza Manzoni dalle parole di un uomo che oggi, lì, non c’era ma che sicuramente ci sarebbe stato se il destino fosse stato un altro. La voce di Bill Arigoni, operaio, sindacalista, compagno della gente semplice, degli operai e dei più deboli, tragicamente scomparso il 12 febbraio scorso, è risuonata in una piazza ammutolita dalla commozione che con un lungo affettuoso applauso lo ha voluto salutare un’altra volta. «Il 1° maggio è sempre stato il Natale della nostra famiglia», ha ricordato il figlio Alessio, introducendo un breve audio clip che ha ripercorso una delle sue tante «lotte in favore degli ultimi» che lo portò alla misura estrema dello sciopero della fame. Una lotta contro i licenziamenti abusivi dei lavoratori, di cui lui stesso fu vittima nel 1997 quando la Mikron di Agno lo mise in strada dopo 25 anni di servizio proprio per questo suo “difetto” di stare sempre dalla parte degli operai. Così, ancora una volta, la piazza del Primo maggio (affollata da moltissimi giovani) ha potuto ascoltare una lezione di Bil Arigoni: «Nessuno deve accettare le ingiustizie!»

In effetti sono ancora molte e troppe le ingiustizie di cui sono vittime le lavoratrici e i lavoratori, hanno sottolineato gli oratori nei loro discorsi del 1° maggio.

 «Un salariato “normale” deve lavorare cinquant’anni per ricevere uno stipendio pari a quello che incassa un top manager in un anno. Questo è semplicemente indecente!», ha tuonato Saverio Lurati, presidente dell’Unione sindacale svizzera (Uss) e Segretario regionale di Unia Ticino e Moesa. In riferimento alle misure di «smantellamento sociale», alle «ingiustizie salariali», alla politica delle «privatizzazioni» e dei «regali fiscali ai ricchi», Lurati ha parlato di «dichiarazione di guerra ai salariati», a cui il movimento sindacale  deve rispondere «con la stessa moneta». Di qui la richiesta di «maggiore giustizia ed eguaglianza» e la necessità di «scardinare la mentalità del profitto ad ogni costo», di «garantire un salario minimo legale», di «impedire lo smantellamento delle assicurazioni sociali», di «dire basta ai programmi di risparmio e alle politiche fiscali per i ricchi». Il 1° maggio, «momento magico per il sindacato» è dunque un’occasione da sfruttare «per dare speranza e voglia di lottare a tutti coloro che finora hanno sempre chinato il capo».

La festa dei lavoratori «non è retorica», ha dal canto suo sottolineato Françoise Gehring, Segretaria sindacale Sev e presidente del gruppo donne dell’Uss. Il 1° maggio «c’è chi onora una storia collettiva o chi desidera onorare una storia personale di fatica quotidiana». Storie «diverse una dall’altra, ma spesso legate da una trama comune: un mondo del lavoro in cui la logica del profitto e dei bonus faraonici dei manager hanno la priorità su tutto», ha affermato con rabbia, ricordando in particolare «l’alto tributo in termini di precarietà, insicurezza, difficoltà nel conciliare famiglia e lavoro» che «le donne, ma non solo le donne», pagano. E poi il richiamo, forte, alla «solidarietà umana, prima ancora che professionale», in quanto «elemento importantissimo per rispondere nel modo più compatto possibile, alle sfide del mondo del lavoro». Perché «nessuno è al riparo dall’incertezza», ha ammonito la sindacalista del Sev.

A stretto di giro di posta, la testimonianza di Novella Chavez, militante di Unia, impiegata in una fabbrica di orologi per 22 anni e licenziata dopo una gravidanza. «Ho sempre fatto gli straordinari che mi sono stati richiesti, sia la sera, il sabato come la domenica. E alla fine mi hanno cacciata per assumere qualcuno con un salario ancora più basso del mio, per permettere all’azienda di avere qualcuno di più giovane che potesse ancora essere messo sotto pressione per rispondere ai ritmi di lavoro sempre più frenetici», ha denunciato Novella Chavez, sottolineando come al suo licenziamento abbia contribuito anche il suo ruolo di presidente della commissione del personale e le sue attività in difesa dei diritti delle colleghe di lavoro.

Diritti che vengono sempre più spesso negati anche (e di questi tempi soprattutto) ai giovani, ha rilevato dal canto suo Daniela Raggi, militante del sindacato Comedia. «I giovani –ha detto- sono sempre più disorientati» di fronte alle difficoltà ad accedere, al termine degli studi o dell’apprendistato, al mondo del lavoro e alla scelta quasi obbligata di accettare impieghi sottopagati.

Storie di diritti (negati ai lavoratori) sono infine state  evocate dal toccante intervento di Bruno Pesce, sindacalista e rappresentante delle vittime italiane dell’amianto, in particolare degli operai e dei cittadini morti in seguito alla lavorazione della fibra mortale nelle fabbriche della Eternit. Un marchio di una multinazionale svizzera che al suo paese, a Casale Monferrato (Piemonte) evoca solo malattia, sofferenza e morte. Pesce ha sottolineato l’importanza del 1° maggio: per ricordare «questi morti e tutte le vittime sul lavoro», ma, più in generale,  per riaffermare e difendere i diritti dei lavoratori. Un esercizio che va fatto «giorno per giorno». «I ricchi normalmente sanno da che parte stare. Tocca a noi, lavoratori, poveri, più deboli, capire che dobbiamo stare insieme», ha concluso Pesce. [Claudio Carrer, Unia].

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