Elena Ledda

Bella ciao 2.0

Il teatro di Chiasso il 23 aprile è pieno come non si è mai visto: a richiamare tanto pubblico è lo spettacolo Bella ciao che, a distanza di cinquant’anni, rimette in scena uno dei capisaldi del folk revival italiano.

Nel 1964, al Festival dei due mondi di Spoleto, il Nuovo Canzoniere Italiano – con la regia (ma forse si dovrebbe dire con l’istigazione) di Roberto Leydi e Filippo Crivelli – propose una scelta ragionata di musiche popolari; fu un avvenimento epocale da molti punti di vista, sia per le polemiche che seguirono quelle frasi “sbattute in faccia” al “colto” e sussiegoso pubblico dei concerti, sia per il segno che lasciò nella cultura italiana non solo musicale, tanto che chiunque si occupi di questi temi (cioè di cultura popolare in senso lato) più o meno si riconosce “figlio” o “figlia” di Bella ciao.

A distanza di mezzo secolo, l’anno scorso, a Franco Fabbri – musicista e musicologo – è venuta l’idea di riproporre quell’esperimento, di rimettere in circolo quell’esperienza. Certo i tempi sono cambiati. Nel 1964 tra i principali obiettivi dello spettacolo c’era quello di portare in primo piano le persone che avevano “costruito” quei canti “popolari” (uomini e donne in carne ed ossa, contadini e contadine, operaie e operai), di farne vedere i volti, di farne ascoltare le voci poco “educate”, di presentarne persino le movenze, i comportamenti, i difetti; l’obiettivo era quello di far capire che quella cultura esisteva davvero, che non era un’invenzione di un gruppetto di ricercatori. Così, sul palco di Spoleto, a darsi manforte reciproca stavano l’uno a fianco dell’altra, Michele Straniero e Giovanna Daffini, Giovanna Marini e il duo di Piadena, ricercatori e ricercatrici insieme a quelli che – in gergo etnomusicologico – si sarebbero dovuti definire “informatori” e “informatrici”; e invece – così si voleva mostrare – erano persone vere e vive.

A distanza di cinquant’anni quei mondi non esistono più e sarebbe stato ipocrita riproporne una versione filologica. E quindi l’obiettivo di questa nuova Bella ciao è diverso, riassumibile nell’idea di mostrare quanto quelle canzoni (e quell’operazione di riproposta) conservino intatta la loro forza espressiva, la loro capacità di illuminare quei mondi e quella cultura e, insieme, di emozionare. E poi c’è, probabilmente, l’intenzione è quella di mostrare che l’attenzione alle musiche “etno” e “world” ha radici lontane e intenti politici che non si dovrebbero dimenticare.

Ed ecco che la compagine sul palcoscenico, straordinariamente ben assortita, riesce a restituire questa complessità, questa stratificazione di motivi e di interessi: le voci femminili di Ginevra Di Marco, Lucilla Galeazzi, Elena Ledda (ciascuna con la propria ascendenza geografica-culturale – toscana la prima, romana la seconda, sarda la terza – e musicale, dall’avanguardia alla musica antica, dal jazz a quella popolare); la voce maschile di Alessio Lega (interprete di primo piano dell’impegno musicale, che porta a sintesi Lecce e Milano) insieme con la sua chitarra; l’organetto diatonico di Riccardo Tesi; le percussioni di tamburi e di corpo di Gigi Biolcati; le chitarre di Andrea Salvadori. Davvero il catalogo è quasi inesauribile, quasi completo: vi si ascoltano gli echi di tutti i diversi folk-revival (Ernesto De Martino e Cesare Bermani, Giovanna Marini e Michele Straniero), ma anche parecchi decenni di musica cantautorale (da Jannacci a Fabrizio De André, passando per De Gregori e altri ancora), per tacere delle lezioni apprese dalla musica contemporanea e jazz. In questi cinqunat’anni – è vero – si è persa la forza dirompente delle “a” apertissime di Giovanna Daffini (“spampaaanaaate” come ha sempre raccontato in concerto Giovanna Marini), delle chitarre naif del Duo di Piadena, ma questi testi e queste musiche – da O Gorizia a Son cieco e mi vedete, da Tutti mi dicon Maremma a La mamma di Rosina – hanno ancora molto da raccontare e da insegnare.

Il pubblico mostra di gradire e di capire: il teatro di Chiasso a tratti sembra “venir giù” per gli applausi e per l’entusiasmo.

Senza esagerazioni, senza presunzioni (anzi – sembra di intuire – con autentico rispetto nei confronti delle madri e dei padri di quell’ormai antica esperienza), ma con molta creatività e molta partecipazione (“abbiamo deciso di rifare queste canzoni così come le preferivamo” dichiara con assoluta sincerità Riccardo Tesi in apertura), lo spettacolo dimostra la vitalità della musica popolare che è assolutamente fuori luogo pensare di chiudere in un recinto, foss’anche quello della ricerca e della filologia.

Una lezione di musica, di poesia, di metodo e – perché no? – anche di politica. In fin dei conti Bella ciao è diventata la canzone della Resistenza e della Liberazione. [Fabio Cani, ecoinformazioni]

Alcuni momenti dello spettacolo.

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