Bertinotti a Como: Ricostruire almeno una sinistra

bert«Fino al 14 aprile 2008 avevamo due sinistre. Ora non ne abbiamo più nessuna. Si tratta di ricostruirne almeno una»: questo il giudizio sulla situazione odierna con cui Fausto Bertinotti, ormai fuori dalla vita politica attiva, si è espresso durante la presentazione del suo ultimo libro: Devi augurarti che la strada sia lunga.

La serata, organizzata venerdì 30 ottobre nel salone dell’Unione dei Circoli Cooperativi di Albate a Como dall’Associazione per la Sinistra, è stata seguita da un centinaio di persone ed ha offerto l’occasione per una riflessione intorno alla domanda che tutti si fanno dopo le elezioni politiche nazionali ed europee.
In Italia non mancano le lotte, non mancano le associazioni, non mancano i gruppi che in qualche modo si proclamano o si richiamano o rappresentano interessi affini alla sinistra, ma nessuno di loro, come non accadeva più dai tempi del Fascismo, è più collegato o collegabile ad una qualsivoglia rappresentanza parlamentare. Certo non si può parlare del Pd come di un partito di sinistra, almeno di quella sinistra che vorrebbe un’alternativa, piuttosto che la semplice alternanza interna all’attuale sistema sociale e di potere. Sollecitato da chi scrive, Bertinotti non è arrivato al punto di dire che il PD, con la sua “vocazione maggioritaria” e la teoria del “voto utile”, abbia contribuito alla scomparsa della sinistra per ragioni meramente di potere o di occupazione opportunistica delle istituzioni, come molti sostengono. Tuttavia egli ha condiviso l’idea che i Democratici rappresentino al massimo quella che una volta si chiamava “sinistra borghese”, il primo partito liberale di massa della storia italiana, paradossalmente nato da genitori tutt’altro che borghesi e liberali quali la destra del Pci e la sinistra della Dc.
Se dunque il Pd ha i suoi problemi perché deve fare i conti quotidianamente con contraddizioni che negano la sua “ragione sociale”, che ne è e che ne sarà di chi vorrebbe ancora una sinistra capace di alimentare la speranza di una società più giusta, di una società in cui le contraddizioni più gravi e le diseguaglianze più scandalose siano un ricordo e non una minaccia, un fatto del passato e non una realtà quotidiana? Ammesso che questa sinistra non sia una pura e semplice illusione, il bel libro di Bertinotti cerca di rispondere a questa domanda attraverso una sorta di autoanalisi politica. Complici le domande delle giornaliste Ritanna Armeni e Rina Gagliardi, la lunga intervista ripercorre a grandi tappe la vicenda personale e politica del protagonista e utilizza la sua esperienza di dirigente, sindacale prima e politico poi, come una specie di lente d’ingrandimento per comprendere meglio la realtà. Lungo i dieci capitoli del libro, Bertinotti ci guida alla scoperta dei motivi che, dal suo punto di vista per molti aspetti privilegiato, hanno condotto alla sconfitta.
Le cose hanno cominciato a mettersi male negli anni Ottanta, quando, di qua e di là dell’Atlantico le quasi contemporanee politiche economiche liberiste di Reagan e della Thatcher fecero capire al mondo intero che il clima internazionale era cambiato. Lo capì anche la Fiat che iniziò la ristrutturazione più importante della sua storia, decine di migliaia di licenziati e cassintegrati, settimane di scioperi e di picchetti, la famosa marcia dei 40 mila quadri e impiegati che chiedevano la ripresa del lavoro, l’accordo siglato con i sindacati costretti a digerire praticamente tutto quello che la Fiat aveva chiesto. Quella fu per Bertinotti una sconfitta molto più dolorosa di quella elettorale più recente perché, come scrive nel suo libro, essa determinò “lo scompaginamento dei lavoratori, della tua gente, del tuo popolo”. La sinistra dunque come comunità antropologica, non tanto e non solo come classe operaia, o classe degli sfruttati, ma anche come comunità di sentimenti e di passioni, muore davanti ai cancelli di Mirafiori nell’autunno del 1980.
Negli ultimi venticinque anni ci sono stati molti tentativi di rianimare quel corpo morto, di far sopravvivere qualcosa di quella lunga stagione di lotte che si apre con la fine della Seconda Guerra Mondiale e si chiude simbolicamente pochi anni dopo la vertenza Fiat con la caduta del Muro di Berlino. Quello che Bertinotti si chiede è se quei tentativi, non ultimo il generoso sforzo di una Rifondazione Comunista, da lui diretto tra il 1993 e il 2006, non siano stati alla fine vani per ragioni così profonde e che forse non si volevano conoscere e affrontare tanto erano difficili e inquietanti. È possibile, cioè, secondo Bertinotti tentare di analizzare più a fondo la sconfitta epocale della sinistra non attribuendola solamente ad errori o “tradimenti”, come fanno in parte le frange più nostalgiche di quella che egli ha chiamato la sinistra identitaria. Si può cercare, come ha spiegato all’attento uditorio, di capirne le radici, di individuarne i germi. Egli ritiene la sconfitta della “primavera di Praga” il momento di non ritorno della vicenda della sinistra europea del Novecento. Fu allora, infatti, nell’agosto del 1968, che il sistema uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre dimostrò che non poteva più essere riformato dall’interno. Oggi possiamo dire che allora, sotto i cingoli dei carri armati che spegnevano l’entusiasmo del popolo cecoslovacco, la speranza suscitata dagli avvenimenti russi del 1917, il modello di società che tanto aveva fatto nel male e nel bene, perdeva per sempre la sua “forza propulsiva”, come riconoscerà troppi anni dopo Enrico Berlinguer. “Dopo quell’avvenimento – dice Bertinotti nel suo libro – i nostri sono stati tentativi nobilissimi e, in mancanza d’altro, necessari, ma nella sostanza, anche se inconsapevolmente, disperati”.
Dopo la presentazione del libro, il dibattito si è naturalmente aperto sulle ferite più recenti e molti degli intervenuti hanno cercato di portare l’autore su tematiche di politica attiva. Qualcuno ha rimproverato a Bertinotti di non aver  mai fatto autocritica, di essersi preso la responsabilità della sconfitta della Sinistra Arcobaleno, ma di non aver mai chiarito le ragioni delle sue scelte, qualcun altro ha proposto per la sinistra il tema del nuovo modello di sviluppo, secondo lo slogan della cosiddetta “decrescita felice”, qualcun altro infine ha chiesto all’ex-presidente della Camera cosa intendesse dire che per rifondare o rifare una sinistra ci vorrebbe una sorta di big-bang culturale. Le risposte a queste domande sono state molto coraggiose, ma hanno deluso forse più di uno  dei presenti. In sostanza Bertinotti non ha proposto formule risolutive. Il momento di crisi è epocale, le mutazioni sociali non autorizzano trasformismi di comodo e, forse, l’unica strada per una sinistra seria consiste nel resistere dove possibile e nello studiare per conoscere meglio la nuova società e i nuovi bisogni di un mondo sempre più complesso e unito, ricco di differenze e di somiglianze, in preda al drammatico problema di un capitalismo che produce sempre più tempo libero e sempre meno opportunità di lavoro, sempre più ricchezza per pochi e miseria per molti.
In altre parole, secondo Bertinotti, è possibile che la cancellazione totale della sinistra dalle istituzioni sia dovuta non già all’abbandono delle posizioni, alla perdita dei punti di riferimento del Novecento, quanto piuttosto a non aver osato abbastanza nei processi di rinnovamento della rappresentanza e della lotta. I comunisti e i socialisti, la sinistra operaia e sindacale, i movimenti anticapitalisti e altermondialisti non hanno perso rappresentanza perché hanno tradito o hanno fallito ma perché non sono stati capaci di cambiare profondamente, sono rimasti ancorati ad idee vecchie, andate in fumo quarant’anni fa nel rogo di Jan Palach in piazza San Venceslao a Praga. La sinistra dovrebbe essere capace, ma qui anche Bertinotti non riesce essere chiaro, di ricostruirsi da capo, con un nuovo inizio, un big bang tutto da inventare. Per questo l’unica strada, forse, è quella di praticare con pazienza lo spirito della poesia di Kavafis da cui Bertinotti ha tratto il titolo del suo libro. La lirica racconta di chi si mette in viaggio per Itaca, fuor di metafora una società più giusta, e si deve augurare che la strada sia lunga, che il viandante non tema gli ostacoli, che abbia sempre in mente la meta, che tragga tutti gli insegnamenti possibili dalle difficoltà che si frappongono al suo cammino e, quando la raggiunga non sia deluso dal fatto che magari non corrisponda alle sue attese. Come dice il poeta “Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/ già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”. [Paolo Ceccoli per ecoinformazioni]

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