Como senza frontiere/ Terza marcia: un genocidio è in corso

Una trentina di persone hanno creato il cerchio della Terza marcia contro lo sterminio dei popoli in fuga dalle 1o alle 19 del  25 agosto in piazza Verdi a Como con le foto dei nuovi desaparecidos. La manifestazione che al rete che unisce un arcobaleno di realtà impegnati per i diritti umani, per la Pace e per “restare umani” ha affermato ancora che i migranti uccisi dai muri che ne impediscono la libera circolazione  non sono numeri, ma vite umane. Piero Camporini ha letto il documento che riportiamo integralmente nel seguito.  Guarda la galleria delle foto della manifestazione di Isabella Bazzi.

«Il pensiero va prima di tutto all’alta Valle del Tronto e ai suoi abitanti.

C’è un modo tragico di conoscere la geografia. Quando capita si resta sbigottiti, sotto l’incalzare  delle terribili notizie  di distruzione e di morte.

In queste circostanze la gara della solidarietà nei soccorsi si estende assai di più delle onde sismiche e se è vero che gli eventi naturali impongono all’uomo motivi di riflessione sulla propria debolezza, sono in grado però anche di suscitare le energie  più generose e positive.

Alle vittime e ai disperati superstiti il nostro pensiero commosso e silenzioso.

Oggi la rete antirazzista Como Senza Frontiere scende per la terza volta in una piazza della nostra città. Un altro giovedì in piazza. Sull’esempio di Milano, Palermo, Torino, Roma e Messina alcuni singoli e realtà comasche si sono riunite per marciare insieme, portando i volti di tante persone, donne e uomini, ragazzi e ragazze, purtroppo bambine e bambini, morte o disperse nel tentativo di fuggire da persecuzioni, conflitti e miseria.

Questi nuovi “desaparecidos” sono più di 32.000. Un genocidio è in corso.

Ogni giorno sulle coste italiane vengono rinvenuti i corpi delle vittime di questa strage; anche le rotte via terra sono cosparse da migliaia di cadaveri.

Ormai questo sterminio sta diventando tanto abituale da non fare scalpore. L’indignazione anziché crescere, sembra diminuire con il passare dei giorni.

Forse anche il piccolo Aylan Kurdi è già un confuso ricordo: 3 settembre 2015.

(Immigrazione  di Raffaella Cosentino, Città Nuova, 2016)pagg. 11-12)

Maglietta rossa e pantaloncini blu, piegati all’altezza della vita. Le scarpette ancora ai piedi.

La faccia riversa all’ingiù nell’acqua, tra la schiuma delle onde. Una posa immobile innaturale.

Sulla spiaggia turca di Bodrum il mare ha adagiato il corpicino di un bimbo siriano affogato durante il tentativo di raggiungere l’isola di Kos in Grecia.

La sequenza di fotografie scattata dalla fotoreporter Nilufer Demir finisce sulle prime pagine di tutti i giornali e scuote il mondo. Mostrando il corpo di Aylan Kurdi, un bambino di tre anni di Kobane, la stampa oltrepassa la soglia etica che imporrebbe di non pubblicare immagini di cadaveri dei bambini. Serve a “cambiare le cose”, dicono molti editorialisti, perché la scena immortala la tragedia dei nostri tempi: la via per l’Europa è una strada letale. Il Mediterraneo è diventato la rotta migratoria più pericolosa al mondo, su cui si affacciano la Grecia e l’Italia, frontiere meridionali dell’Unione Europea.

Nel 2015 oltre 3.500 persone sono colate a picco tentando di raggiungere la sponda della salvezza. Tra loro c’erano 700 bambini.

Troppi sono morti prima, troppi sono andati a fondo dopo Aylan. Il rischio è di dimenticare presto lo choc e la commozione.

Con lui sono morti la mamma e il fratello Galip di cinque anni. Erano saliti su un gommone dopo che il Canada, dove risiede la zia di Aylan, gli aveva rifiutato l’asilo politico e la possibilità di un normale viaggio in aereo.

(Idem, Ibidem, pag. 21) Si muore anche lungo il tragitto della “Balkan Route”.

La mappa geografica non può raccontare i bimbi morti di freddo al confine turco-iraniano, le donne uccise dalla fame e dagli stenti, le persone investite dai treni mentre camminavano sui binari in Macedonia.

Quella balcanica non è una via sola, è fatta di tanti percorsi che cambiano a seconda dei controlli della polizia e dei muri che vengono innalzati.

Gli afghani giovanissimi, spesso anche minorenni, passano dal Pakistan, attraversano l’Iran e la Turchia quasi interamente, da oriente a occidente. Camminano per mesi, attraverso montagne e jungle, boscaglie in cui si nascondono dai poliziotti. Lungo il tragitto vengono arrestati, derubati, percossi. A volte per giorni non hanno acqua né cibo. Il 13 maggio 2015 sei bambini e una donna  sono morti per ipotermia nel tentativo di entrare in Turchia attraverso il confine iraniano. Gli episodi di questo tipo sono molti.

Chi sopravvive tenta di raggiungere la Grecia. Ad esempio si può partire  con un’imbarcazione di fortuna dal confine turco di Izmir, Smirne. Come in Libia, anche in Turchia i goommoni vengono riempiti dagli scafisti con molte più persone della capacità massima. In tanti affondano.

Una volta in Grecia si passa in Macedonia e poi in Serbia, Ungheria, Austria e Germania.

Quando l’Ungheria ha chiuso il confine con la Serbia costruendo un muro di filo spinato anti-immigrati, il flusso di profughi si è spostato verso la Croazia e la piccola cittadina di Tovarnik, nella regione della Slavonia. Il confine passa nella zona di Vukovar, la città simbolo della guerra fra serbi e croati, teatro di assedi, massacri e fosse comuni all’inizio degli anni Novanta.

I croati di Tovarnik, oggi cittadini dell’Unione Europea, sono stati rifugiati 25 anni fa, dirante il conflitto dei Balcani. Ed è allo scoppio del conflitto nella ex Jugoslava che bisogna tornare come paragone per l’afflusso dei profughi, secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che parlano della cifra record di un milione di persone costrette a fuggire da persecuzioni, conflitti e povertà: la più alta registrata in Europa occidentale e centrale dal 1990.

Il 20 agosto del 2015 la TV del Qatar Al Jazeera ha annunciato sul suo sito, con un editoriale scritto dal giornalista Barry Malone, che avrebbe usato solo il termine “rifugiati” per riferirsi al Mediterraneo.

“Migranti è diventato un termine-ombrello generico e inaccurato per la complessità di questa storia- scrive Al Jazeera – ; l’argomentazione che molti di quelli che rischiano tutto per raggiungere le coste europee lo facciano per ragioni economiche non è supportata dai fatti”.

E’ la grande questione del momento: la distinzione tra rifugiati, ovvero migranti forzati che non hanno altra scelta per salvarsi la vita e migranti economici, cioè persone che partono per libera scelta nel tentativo di migliorare le proprie condizioni.

La Grecia, sull’orlo del default economico e in preda a una crisi politica che ha tenuto il mondo con il fiato sospeso, ha subìto l’afflusso di profughi in proporzioni straordinarie: del milione di migranti e rifugiati arrivati in Europa, oltre 800.000 hanno attraversato il Mar Egeo dalla Turchia verso le isole greche.

A fine settembre 2015, dopo lunghe trattative, Bruxelles ha annunciato il ricollocamento di 160.000 richiedenti asilo da Grecia e Italia su base volontaria, una sorta di reinsediamento tutto interno all’area Schengen. Ma non c’è alcun obbligo per gli Stati membri dell’UE di aderire. Dopo più di due mesi solo 200 persone erano state trasferite. Un fallimento su cui pesano anche gli attentati terroristici di Parigi, rivendicati dall’Isis, in cui sono morte 130 persone.

L’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati ha chiesto di “non trasformare i rifugiati in capro espiatorio”, ricordando che proprio loro fuggono dagli stessi massacri e atrocità. L’appello a non trasformare le vittime in colpevoli, al momento, è caduto nel vuoto.

Dimenticare, archiviare in modo acritico, provare assuefazione, rassegnazione, Dio non voglia! fastidio, nell’ascoltare i quotidiani annunci di naufragi, i resoconti terribili di migranti morti o ingannati o scomparsi.

Il primo annuncio suscita una diffusa commozione: le immagini e le  foto delle vittime scorrono quasi ossessivamente davanti agli occhi e alle coscienze, e lo sconcerto incredulo sembrerebbe diffondersi e concretizzarsi in una generale volontà di positiva contrapposizione ad ogni politica di chiusura, fatta di mura e di filo spinato.

 

Ma il moltiplicarsi degli orrori c’è pericolo che anziché dare un fondamento razionale alle emozioni o rafforzare i buoni sentimenti e i buoni propositi di apertura e di solidarietà, riesca a spegnere il fuoco  iniziale.

Così va il mondo, purtroppo, che, passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Celebre e pessimistica considerazione  del Verga.

Ma non necessariamente il mondo deve andare così.

Bisogna contrastare questi tipi di atteggiamento.

Se ci si sente impotenti di fronte a problemi tanto gravi e complessi, non ci si deve stancare di commuoversi e di documentarsi: il cuore e la ragione.

Un genocidio è in corso!» [Piero Camporini, Como senza frontiere]

 

 

 

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