Ciclostilato in proprio/ Paulo maiora

Sembra di capire che non si possa fare a meno di parlare della campagna elettorale, della sua conclusione ormai imminente e di ciò che accadrà dopo il 4 marzo. Il rischio, oltre a quello della propaganda, è quello di smarrire il filo logico di una riflessione sulle radici dell’attuale stato delle cose, inseguendo la schermaglia alimentata dalla tempesta quotidiana delle dichiarazioni, dei comunicati, dei sondaggi, dei post sui social, in cui tutti – dico tutti – quelli che scrivono lo fanno ormai per confermare le loro scelte e per cercare di scavalcare gli avversari nella graduatoria dei like.

Gli spunti non mancherebbero, nemmeno se ci si limita a guardarci attorno. Nemmeno quelli che hanno a che fare con la galleria degli orrori, che solo l’abitudine al cattivo gusto e un residuo della buona educazione ricevuta da piccoli (nel mio caso) impediscono di sottolineare come meriterebbero. Come lo sbarco trionfale dei senza vergogna, quelli che hanno il record della peggiore esperienza amministrativa a Como (Comunione e Liberazione e i loro sodali) con Lupi e Vignali in testa, presente un ex sindaco che sarebbe bene consegnare alla damnatio memoriae. O come la simpatica candidata di FI che si raccomanda agli elettori vantando come merito una recente gravidanza. O come gli autogol di quelli che pubblicano le foto dei loro gazebo desolatamente disertati dall’interesse dei passanti e pieni dei manifesti con “quelle facce un po’ così, quell’espressione un po’ così” che di questi tempi hanno quelli del Pd.

Poi, però, in una delle tante iniziative con candidati e supporter, qualcuno interviene e dice una cosa che fa pensare (scusate la parolaccia). Osserva che, a tanti anni dalla nascita dello Stato virtualmente unitario di nome Italia, ci sono ancora almeno tre grandi questioni aperte. La questione meridionale, che sembra allargarsi a mano a mano che la globalizzazione lambisce le lande patrie. La questione del lavoro, che sembra farsi più problematica, in un crescente contrasto con le promesse e l’impegno della Repubblica “fondata sul lavoro”, intaccando il binomio cittadino/lavoratore nel momento in cui la dignità e il valore del lavoro vengono vilipesi da leggi, comportamenti, assuefazione (al “meglio precario che niente”, “meglio sottopagato che niente”, “meglio in nero che niente” ecc.) che feriscono non solo l’idea alta di un modo di intendere il lavoro come l’incrocio tra la realizzazione di sé e il contributo offerto da ciascuno alla società ma anche la stessa idea della cittadinanza democratica. La questione morale, che riguarda non solo la politica e le sue miserie (il familismo dei De Luca, dei Boschi e dei Renzi, per dire, o l’ipocrisia dei grillini presi con le mani nella marmellata proprio sotto le elezioni) ma anche, ad esempio, le liquidazioni milionarie dei banchieri falliti, il mordi e fuggi di imprenditori e banche che svendono Italo «come una start up qualsiasi» (parole di Gentiloni), dopo avere reclamato a gran voce la liberalizzazione delle ferrovie e avere imposto alla collettività costi economici e ambientali per le linee dell’alta velocità, o le inquietanti lottizzazioni della sanità lombarda. E si potrebbe continuare all’infinito.

Dopo oltre un secolo e mezzo, siamo ancora qui a dirci che il progetto di un’Italia sopportabilmente omogenea, capace di dare una prospettiva ai suoi figli e di valorizzare i talenti e le forze di chi lavora, e guidata da una classe dirigente affidabile, non si è ancora realizzato. Che c’è un problema di identità che non c’entra con l’immigrazione ma che ha a che fare con tare antiche che solo un rinnovamento profondo delle classi dirigenti (non solo, ma anche, del ceto politico) potrebbe affrontare. Che serve il coraggio di farsi carico del compito di costruire un blocco sociale (un blocco storico, diceva qualcuno) che sappia reggere l’impegno a un rinnovamento profondo della realtà nazionale in tutti i suoi aspetti. Che sia in grado di produrre e di diffondere una diversa cultura. Quello messo insieme da Berlusconi, che tenacemente riappare nei momenti topici della vita nazionale con la sua forza prepotente e brutale, rappresenta la continuità con il vecchio aggregato di particolarismi, egoismi, trasformismi e disprezzo per i valori civici che è responsabile dello stato di cose attuale. La forza principale che avrebbe potuto e dovuto farsi carico, almeno in parte, di questo progetto, ha scelto, con Renzi, di puntare invece al consenso di quello stesso blocco senza neppure essere in grado di disarticolarlo, come dimostra il suo perdurante declino elettorale. Il “partito della nazione”, in realtà, che prima Renzi si illudeva di costruire in proprio e poi prefigurando l’alleanza con Berlusconi, non è che il tentativo (fallito) di rappresentare quel blocco. Quello che ha lasciato aperte, anzi ha aggravato, le “questioni” di ieri e di oggi. A chi si chiede perché sia stata consumata una rottura nel campo del centrosinistra, in fondo, è facile rispondere che le ragioni di fondo stanno tutte qui. E anche, nel nostro piccolo, a chi ci chiede: “Perché non sostenete Gori?”. Quello che vuole “Fare, meglio” quello che hanno fatto gli altri.

A chi chiede che cosa fare, risponderei con una sfida: riattualizzare le parole di un grande maestro del passato: «Il moderno principe, il mito-principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula di cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali». Porre le basi, intanto, per un soggetto politico che si faccia banditore e protagonista di una rifondazione dei caratteri della nazione nel segno di un grande processo di cambiamento sociale. [Emilio Russo, dal blog di ecoinformazioni Ciclostilato in proprio]

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