Flex-insecurity

Nel 2008 circa 4,8 milioni di lavoratori e lavoratrici italiani erano occupati con un contratto atipico. Nel 1996 gli occupati con contratti a termine erano 1,5 milioni. A fronte di tale crescita numerica non è però oggettivamente corrisposta un’estensione del welfare e delle garanzie per i lavoratori senza contratto a tempo indeterminato. Com’è stato possibile? «L’aumento sostanziale del numero dei lavoratori atipici – spiega Stefano Sacchi – non è percepito come tale. In Italia il lavoro atipico è certamente cresciuto soprattutto negli ultimi dieci anni. Oggi il 13% dei lavoratori è a durata prefissata, una percentuale inferiore alla media europea che è 14%, ma il fenomeno non si è ancora manifestato appieno. In realtà i due terzi delle persone che entrano nel mondo del lavoro vi accede attraverso queste forme contrattuali: ma non sono dei trampolini verso contratti più stabili. Dunque il fenomeno interessa molto i giovani. Ed è stato sottovalutato da parte dei policy makers, che ritengono, senza nessuna evidenza empirica (dati empirici che invece nel nostro libro forniamo per la prima volta, a seguito di uno studio di tre anni), che i lavori atipici costituiscano solo una fase del percorso lavorativo: sempre più non accade questo».
Uno dei nodi del dibattito su cococo, cocopro, lavoro somministrato &c. è il sussidio di disoccupazione. «Il meccanismo che regola oggi questi sussidi –chiarisce Sacchi – nel nostro Paese fa riferimento a regole del 1919, in sostanza norme di un’epoca passata che “tagliano fuori” dalla possibilità di ricevere i sussidi tantissimi lavoratori. Infatti i dipendenti con contratti di durata prefissata (somministrati, a termine, eccetera) hanno diritto in via teorica al sussidio, ma nella pratica spesso non riescono a ottenerlo perché a causa delle interruzioni lavorative e dei bassi salari
non maturano tutti i requisiti richiesti (mentre per i cococo e i lavoratori a progetto il sussidio non c’è tout court)».
Perché dunque non vi è mai stata una riforma dei sussidi di disoccupazione? «Perché per i lavoratori “forti”, ovvero i lavoratori standard, con contratto a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti, ci sono altri ammortizzatori: cassa integrazione, cassa integrazione straordinaria e indennità di mobilità. Abbiamo un pilastro del sussidio di disoccupazione ipotrofico rispetto agli altri stati europei: ma grandi imprese, governo e sindacati non avevano alcun interesse a riformarlo perché il consenso era ottenuto attraverso gli strumenti speciali per i lavoratori forti».
In Italia, infatti, il provvedimento più rilevante posto in essere per superare le difficoltà della crisi è stato l’estensione in deroga degli ammortizzatori suddetti (Cig, Cigo e mobilità): «una deroga su requisiti settoriali, di dimensione delle imprese e riguardo il tipo di contratto; ora anche chi ha un contratto a tempo, di durata prefissata, in determinati contesti può godere di quelle forme di ammortizzatori».
Ma il problema principale resta ed è sostanziale, per il docente dell’Università degli Studi di Milano: «diversamente dal resto d’Europa nel nostro Paese questi strumenti di risposta alla crisi non sono diritti soggettivi, gli ammortizzatori in deroga sono altamente discrezionali, dipendono da vari fattori, variano ad esempio da regione a regione: non sono diritti ma prestazioni variabili».
In questo quadro, è evidente che a farne le spese, in un certo senso, sono i lavoratori che in Italia hanno più difficoltà ad accedere al mondo del lavoro, oltre che quasi sempre condizioni salariali peggiori a parità di mansione: le donne. «La flessibilità – continua Sacchi – ha molte accezioni, nella sua accezione di organizzazione flessibile, appunto, del tempo e del luogo di lavoro, dovrebbe significare forme contrattuali, come il part time o il telelavoro, che in teoria possono consentire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e la conciliazione delle esigenze famigliari con quelle professionali. Ma in Italia il vero problema è che la flessibilità è stata introdotta soprattutto come forma di riduzione dei costi del lavoro da parte delle imprese, ovvero per pagare meno i lavoratori e sfruttare la flessibilità numerica. Mancano le dimensioni dei diritti, nella versione italiana della flessibilità: per tanto possiamo anche dire che la flessibilità può promuovere una maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro ma occorre analizzare come ciò accade. Due terzi dei precari sono donne: allora è evidente che per loro la flessibilità si declina con lavori di bassa qualità e poco protetti».
Cosa fare quindi per invertire questa tendenza, per mettere in luce gli aspetti positivi della flessibilità che in Italia non sono ancora emersi? Come agire politicamente, vista anche la prossima tornata elettorale regionale? «A livello nazionale occorre una riforma degli ammortizzatori sociali, mentre Province e Regioni dovrebbero investire sui serizi pubblici per l’impiego, fulcro delle politiche attive del mercato del lavoro. È necessario migliorare l’informazione (banche dati etc) per promuovere l’incontro tra domanda e offerta, investire dunque nelle infrastrutture dei centri per l’impiego, e finanziare iniziative di formazione. Allontaniamoci dalla logica degli ammortizzatori in deroga». Infine, l’art.18 e la polemica sull’arbitrato. «Ichino e altri autorevoli giuslavoristi ritengono che l’impatto di tale riforma sarà inferiore a quello paventato dalla Cgil. Secondo me – conclude Sacchi – l’articolo 18 così com’è è iniquo: iper-tutela alcuni, mentre altri tutti gli sono sottotutelati: in caso di licenziamento o di non rinnovo del contratto, in Italia il lavoratore non ha diritto a nulla. Meglio sarebbe abolirlo, introducendo però un’indennità di terminazione (un pagamento monetario proporzionale al monte salari maturato in azienda) applicabile a tutti i lavoratori indipendentemente dal tipo di contratto (quindi anche per i lavoratori a termine e quelli a progetto nel caso in cui il contratto non venga rinnovato). In ogni caso, anziché “scannarsi” sull’art.18 sarebbe meglio equalizzare il lavoro e creare un pavimento di diritti che valgano per tutti. Il ricorso all’arbitrato darà invece luogo a decisioni differenti in presenza di situazioni simili, poiché il collegio arbitrale decide secondo equità e non secondo diritto Si va insomma verso un diritto del lavoro in deroga, a macchia di leopardo, ed è questo ciò che temo maggiormente: ci si allontana sempre più dalla concezione di diritti applicabili a tutti». [Barbara Battaglia, ecoinformazioni]