Senegal, Goree – isola delle schiave e degli schiavi

Grazia Villa, del direttivo de I bambini di Ornella e presidente de La Rosa bianca,  interviene sui nuovi efferati episodi di razzismo in Italia: «La notizia del brutale assassinio, ad opera di un neonazista a piede libero, di due uomini e del ferimento grave di altri tre provenienti dal Senegal ci scoppia nel cuore mentre stiamo preparando il canto Jere Jef in Wolof (dialetto senegalese)che eseguiremo con il coro Le Belle di note fra poche sere durante la cena sociale dell’Associazione i Bambini di Ornella. Jere Jef significa Grazie!

La nostra pronuncia è pessima, ma il desiderio era ed è quello di rendere omaggio, anche se in modo goffo, alle bambine ed ai bambini di Kelle, il villaggio di pescatori della Comunità rurale di Yene dove opera l’Associazione partner senegalese Les enfants d’Ornella. Molti di questi bambini si chiamano Diop,  Modou, Moustapah, Sougou, con il tempo abbiamo imparato a pronunciare i loro nomi, insieme a quelli altrettanto ricorrenti delle bambine.

E così oggi osiamo chiamare per nome, con vergogna e con tremore, anche Samb Modou, Diop Mor, uccisi sulla piazza di una città nostro vanto di storia e di cultura, Moustapha Dieng,  Sougou Mor ,Mbenghe Cheike, feriti a morte tra i palazzi di una città fiore all’occhiello di ogni buon governo.

La città delle coraggiose donne fiorentine di ogni tempo, la città della pace di Giorgio La Pira, la città della libertà di Girolamo Savonarola, la città della poesia di Dante Alighieri.

Non sappiamo se in Senegal o qui in Italia, alla faccia dei panni sciacquati in Arno, definito il Paese, dalle nostre normative permeate di esclusione e respingimenti, frutto a loro volta di paure e xenofobie, ci sono mogli, mamme, figlie e sorelle con gli stessi nomi delle bambine di Kelle, gli stessi sguardi intensi, i medesimi sorrisi che all’improvviso illuminano ogni notte del cuore e che oggi, ancora una volta, si spengono a causa di un’ingiustizia che sordamente si ripete nella storia.

Non possiamo non sapere, però,  che le lacrime di oggi scendono da quegli stessi occhi fissati sull’infinito della sofferenza, ricordati dalla scritta a mano, appesa ad un  muro dell’Isola di Gorée [nella foto].

Sofferenza ora come allora frutto non di una presunta disumana follia di un individuo, ma tragica responsabilità di tutte e tutti.

Stesso oceano, stesse sponde, stesso colore della pelle, stesso sfruttamento, stessa sofferenza all’infinito.

Pogrom che si ripetono a Torino come in tanti roghi delle Europe della storia.

Venerdì 16 dicembre canteremo Jere Jef, ma il nostro grazie per non essere falso dovrà essere umile e pegno di una rivoluzione del cuore, promessa di non recedere dal coraggio di continuare a chiamarci per nome, cittadine e cittadini con una storia condivisa, abitanti di un luogo con una piazza Ellen Johnson-Sirleaf, già della Signoria oppure con una grande via Leopold Sedar Senghor, già via dei Giubbonari. Jere Jef».

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