Provincia/ Accettare la sfida di un’aggregazione diversa
Anticipiamo, dal numero di novembre del mensile ecoinformazioni nel quale troverete alcune pagine con opinioni differenti sulla scelta del governo di procedere alla riforma istituzionale relativa alle province, l’intervento di Emilio Russo che afferma: «Partire dalla vecchia ossessione ottocentesca della “Provincia di” è un non senso, condiviso purtroppo dalle istituzioni e dalle forze politiche locali» e auspica «una nuova pianificazione territoriale di scala diversa (non il provincialismo che oggi si respira a Como)».
Se il compito della Storia è soprattutto quello di avvertirci del carattere relativo, situato, di ciò che accade, e di evitare che la cognizione del passato venga schiacciata all’interno delle categorie del presente, pochi come Fernand Braudel hanno contribuito a restituirci una memoria liberata dal pregiudizio dell’immutabilità della politica e della centralità dello Stato nella genesi delle forme materiali e di quelle simboliche della nostra civiltà. Avvertendoci, anzitutto, che il motore dello sviluppo dell’economia (capitalistica) e il luogo di affermazione della cittadinanza è stata, nell’Occidente che abitiamo, la città. Per un lunghissimo ciclo storico, corrispondente alla fase dell’irruzione e del consolidamento della modernità in Europa, le dinamiche più avanzate si sono concentrate nella dimensione dell’urbanesimo. Il processo che ha consentito l’emergere della città come polo direzionale, economico e culturale del territorio non ha visto però uno sviluppo lineare e, tanto meno, privo di conflitti. Prescindendo dagli aspetti più frequentati dalla storiografia tradizionale – lo scontro con i poteri feudali e le ricorrenti prepotenze centralizzatrici degli Stati, dal ghibellinismo in poi – l’ambito nel quale in modo più sommesso e con una maggiore opacità si è colta la dialettica che ha investito la città è quello delle relazioni con il suo intorno. Basta leggere gli Statuti della Como medioevale per constatare la subordinazione a cui per secoli “il contado” è stato costretto. Soprattutto a partire dal momento – che qualcuno data nella seconda parte del XIV secolo – in cui la rarefazione demografica e la diminuzione delle rendite indussero le famiglie detentrici del potere economico a trasferirsi nei palazzi signorili delle città e a sviluppare da lì la doppia dinamica del controllo del territorio esterno e della competizione per il potere. Una soggezione, quella delle campagne, pagata con forme di sfruttamento a volte feroci e giustificata con il ridisegno di luoghi urbani nei quali venivano a concentrarsi, oltre alla nuova rendita urbana, valori artistici e culturali in senso lato, significati religiosi, risorse finanziarie, strutture di servizio poste nominalmente a disposizione di territori più vasti.
Che c’entrano Braudel e la Como del Medioevo con la discussione attuale sulle Provincie? C’entrano, eccome. Perché è da questo schema di rapporti che ha avuto origine l’idea della Provincia. Su di esso si è innestata la logica centralizzatrice dell’epoca napoleonica fatta propria dal nuovo Stato unitario, per la pigrizia mentale, per il riflesso statalista delle classi dirigenti e per il timore di innescare eventuali spinte centrifughe attraverso il riconoscimento di realtà politiche troppo simili ai vecchi Stati pre-unitari. La Provincia, in ogni caso, resta segnata indissolubilmente dall’egemonia della città e dai rapporti di dominio nei confronti del contado. Secondo uno schema centripeto che è persino testimoniato dalle parole che le norme hanno scelto di usare: “Provincia di”. Di Como, di Varese, di Monza ecc. In fondo, è da qui che nasce l’interrogativo sulla loro attualità. Oggi, infatti, come scrive Marc Augé, «Assistiamo a una nuova contestualizzazione di tutte le attività umane. La globalizzazione è anche l’urbanizzazione del mondo, è anche una trasformazione della città che si apre a nuovi orizzonti. Questo fenomeno inedito ci invita a ritornare su un certo numero di concetti» (L’immaginazione delle città, 2009). Di fronte a una realtà che ha trasformato i territori in altrettanti reticoli di relazioni mobili e ha fatto delle città, prima di tutto, un luogo di flussi. Al punto – so che è paradossale, ma sarebbe utile rifletterci – che la stessa consuetudine di affidare solo ai residenti il potere di scegliere la composizione e gli indirizzi del governo delle città rappresenta un limite della democrazia: come sono rappresentati quelli che in città lavorano, studiano, utilizzano gli uffici pubblici, consumano o anche semplicemente transitano? Restringere la base politica delle città ai soli residenti – di città, come accade a Como, popolate sempre più da classi d’età squilibrate rispetto agli altri “utilizzatori” – finisce per suggerire “chiusure” piuttosto che politiche inclusive, per privilegiare l’immobilismo e lo sfruttamento delle rendite esistenti anziché puntare sulla creazione di valore, di nuove opportunità di sviluppo.
Diverso è il caso delle Regioni. Le Regioni hanno un nome, legato per lo più alla topografia dei luoghi e ormai del tutto lontano dalle tracce storiche del passato, estraneo alla nomenclature aborrite dai protagonisti del Risorgimento. Le Regioni furono e sono il portato di una mentalità costruttivista, una creazione della politica, sfidata dall’esigenza di garantire la continuità dello sviluppo e di correggere squilibri e ingiustizie, dal duplice bisogno di riarticolare le istituzioni dello Stato in modo più dinamico emancipandole dalla dimensione localistica e, al tempo stesso, di promuovere una coordinazione dei territori, delle autonomie, in “sistemi” capaci di rapportarsi meglio, per loro economie di scala, con il “centro” e con gli altri sistemi. So bene che questo esperimento “riformatore” – che allora chi stava, come chi scrive, nelle fila della “sinistra extraparlamentare” vedeva come conseguente alle logiche del “neocapitalismo” -, nel tempo ha assunto connotazioni critiche, che in suoi obiettivi iniziali sono oggi per lo più sconosciuti anche ai protagonisti, ma è da qui che bisogna ripartire. Nel nostro caso, concependo la Lombardia come un sistema all’interno del quale si possano cogliere le linee di frattura e le logiche di ricomposizione tra aree che sono chiamate a interagire, sulla base delle loro specificità, in vista di un disegno comune. Oggi, nel 2012, concentrato sulla necessità di valorizzare le risorse per rilanciare lo sviluppo su basi nuove – la conoscenza, l’ambiente, la creatività, la canalizzazione del risparmio verso una nuova generazione di attività manifatturiere -, di far emergere nuovi protagonisti – a partire dalle donne -, di ridurre le diseguaglianze e gli squilibri che non sono più, oggi, tanto quelli tra i territori ma quelli tra le generazioni e via riformando.
Per questo, partire dalla vecchia ossessione ottocentesca della “Provincia di” è un non senso, condiviso purtroppo dalle istituzioni e dalle forze politiche locali. Quello che serve, invece, è valutare le relazioni di scambio delle aree fuori dalla camicia di forza delle istituzioni attuali e da un idea datata, anacronistica, del “capoluogo”. Sarebbe consigliabile leggere le dinamiche reali senza pregiudizio. Alla fine si potrebbe scoprire che l’ipotesi della “grande Provincia” – sì, quella che comprende anche Monza – è tutt’altro che una catastrofe; che può essere invece una opportunità straordinaria. Basta considerare il peso che per la nuova realtà può derivare dai fattori demografici (con 2,500 milioni di abitanti, sarebbe la seconda dopo Milano), economici (qui ci sono i luoghi della seconda rivoluzione industriale e permangono le potenzialità di una cultura imprenditoriale che va rivitalizzata e spazi che vanno riconvertiti), ambientali (per la complementarietà e il pregio dei diversi contesti), quelli legati alla posizione geografica e alla dotazione delle infrastrutture, che fanno di quest’area, con Malpensa, lo sbocco di Alp Transit, la Pedemontana, un punto nevralgico delle relazioni tra il Centro Europa e il Mediterraneo e sulla direttrice Est (Venezia e i Balcani ) – Ovest (Genova, Torino, Lione): una delle più grandi piattaforme logistiche del Continente.
Con un programma, una missione con cui la nuova Provincia dovrebbe nascere: diventare quello che può essere. Ho l’impressione che, al contrario delle conclusioni a cui giunge chi si attarda a esorcizzare il ruolo di Milano, questa soluzione potrebbe essere l’unica chiave in grado di modificare le gerarchie interne all’area metropolitana. Ecco, un programma: ancora una volta la differenza tra i riformisti e il resto del mondo consiste nella passione per il cambiamento. Perché se resta qualcosa che ricorda semplicemente l’aggregazione tra le vecchie Provincie, basta proseguire nel solito tran tran. Non serve un programma. Se, al contrario, si accetta la sfida di un’aggregazione diversa e più ampia, si apre la strada per un progetto per il quale serve mobilitare risorse culturali e investimenti (in infrastrutture im/materiali e nella creazione di una nuova economia), ma per cui occorrono soprattutto una nuova pianificazione territoriale di scala diversa (non il provincialismo che oggi si respira a Como), e soprattutto una buona politica. Non le furbizie e i balbettii di queste settimane. Quelli abbiamo visto tante volte dove portano.