Il Cabaret yiddish di Moni Ovadia al Sociale di Como

moni-ovadiaGrande successo per Moni Ovadia e il suo Cabaret yiddish al Teatro Sociale di Como nella serata di venerdì 12 aprile: un ritratto vivace e non indulgente della cultura dell’ebraismo tradizionale della Mitteleuropa.

Cabaret yiddish si può ormai considerare un classico: è lo spettacolo che ha sancito il successo teatral-musicale di Moni Ovadia e al tempo stesso ha fondato la conoscenza presso un pubblico italiano abbastanza vasto del mondo della cultura yiddish e della musica klezmer.

La sua prima edizione risale a più di vent’anni fa (la fissazione discografica delle musiche in Oylem Goylem è del 1991, ma già lì si fa riferimento a spettacoli di qualche anno prima), eppure, anche a risentirlo oggi, resta uno spettacolo attuale e coinvolgente. Sotto l’apparenza di un racconto a “ruota libera” è uno spettacolo teatrale dalla struttura compatta, e dal contenuto densissimo; talmente denso da poter essere considerato una sorta di sintesi anticipata, una sorta di indice dei molti spettacoli a seguire, pure portati in scena con fortuna da Moni Ovadia: quello sulla Yiddische Mame (la “mamma ebraica” delle comunita chassidiche dell’Europa centrale), quello sull’olocausto (Dybbuk) e quello su ebrei e rom. L’alternanza tra parlato (le “storielle” ebraiche, ma anche le colte citazioni da autori noti e meno noti) e musica (alcuni dei più famosi brani klezmer) costruisce, sotto l’attenta guida dell’attore-cantore, un ritratto (certo non esaustivo, ma sufficientemente articolato) della cultura delle popolazioni di origine ebraica stanziate in una vasta zona dell’Europa centrale a cavallo delle aree linguistiche tedesche e slave.

Due sono le parole chiave che tornano ripetutamente in modo esplicito nel corso dello spettacolo: esilio e viaggio.

Quella yiddish è una cultura dell’esilio, cultura di una comunità che non si è mai completamente riconosciuta nel territorio che ha dovuto abitare (la dinamica – fonte anche di drammatica polemica – tra integrazione e estraniazione è una delle caratteristiche fondanti della cultura ebraica moderna, e molto spesso gli esponenti yiddish rinfacciarono agli ebrei integrati nelle città mitteleuropee di aver rinnegato la propria matrice oriiginaria), una cultura che proprio per questo si riconosce nonostante tutto nell’inevitabilità dell’esodo, del viaggio senza termine (quarant’anni per abbandonare un deserto che si potrebbe attraversare in sette giorni! ricorda Moni Ovadia proprio all’inizio dello spettacolo). Una cultura che trova espressione in una lingua, lo yiddish appunto, meticcia e instabile: una lingua che Moni Ovadia ricrea sul palco inventando una sorta di grammelot italo-ebraico, palesemente privo di giustificazione filologica ma a tratti assolutamente esilarante.

Questa cultura non può essere colta che attraverso un viaggio, intendendosi con questo un’acquisizione dinamica, mai data per finita, che deve necessariamente spostarsi dai villaggi della Polonia, alle capitali dell’ex impero asburgico, dai grattacieli di Manhattan alle sabbie del Sinai, ma anche orientarsi tra reminiscenze premoderne e sollecitazioni postcapitalistiche.

In tutto questo la musica, che con perfetta scelta di ritmo si alterna ai racconti, serve a recuperare un contesto ideale ed emozionale che supera anche l’incomprensibilità della lingua (lo yiddish, appunto). La filologia è messa da parte, le melodie sono reinterpretate da un affiatatissimo gruppo che riunisce violino, clarinetto, fisarmonica e contrabbasso, e che intercala anche variazioni che sembrano improvvisate al momento. Almeno due musicisti fanno parte dell’ensemble fin dagli esordi (il violinista Maurizio Dehò e il contrabbassista Luca Garlaschelli), cui si sono aggiunti il fisarmonicista “zingaro” Albert Florian Mihai e il clarinettista Paolo Rocca; si sente emergere a tratti la loro composita formazione (studi di conservatorio, pratica jazz, musica di strada), ma questo si capisce essere l’unico vero atteggiamento filologico, l’unico modo di mettere mano a una musica meticcia per definizione (come la sua lingua di riferimento).

Anche dopo vent’anni, Cabaret yiddish mantiene immutata la sua forza: addirittura si continua a ridere di gusto a sentire le storielle che già si sanno a memoria.

Alla fine, dopo gli applausi e l’“intervento” finale dedicato a Emergency e all’impegno civile che non deve mai venire meno, tre musicisti scendono dal palco e “guidano” il pubblico fuori dalla sala, intonando “Bella ciao” o meglio la melodia da cui la canzone partigiana potrebbe aver tratto ispirazione, e che – ovviamente, verrebbe da dire – è una melodia yiddish. E il bello è che, nonostante la fatica degli spettacoli tutte le sere, sembrano proprio divertirsi… [Fabio Cani, Ecoinformazioni]

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