Emilio Russo/ Consigli sgraditi al Pd

emilio russoLa storia politica di Emilio Russo non è certo estranea al Pci e alle sue evoluzioni successive, ma oggi nell’affidarci questo scritto propone due titoli entrambi riferiti a un osservatore esterno. Li  riportiamo all’inizio del suo intervento e crediamo che il secondo, quello “sgradito”, sia più veritiero e che al solito – come ogni volta che su questo giornale o altrove si esprimono opinioni – si riterranno ingenerose le critiche e gufi coloro che le esprimono. Ma continuiamo e continueremo a offrire le nostre pagine a chi vorrà intervenire da ogni punto di vista per analizzare la drammatica situazione della maggiore forza politica comasca. Ci sembra che il superamento del dibattito senza senso su Lucini sì o Lucini no sia un punto da cui partire per il futuro della città di Como oggi non governata dalla politica.

«Dovessi mettere un titolo, sceglierei una cosa del tipo “Consigli non richiesti al Pd di Como da parte di un osservatore esterno ma non neutrale”. Con una possibile variante: “Consigli non richiesti e tanto meno graditi ecc.”.

1 – Al di là delle contorsioni politiciste e delle recriminazioni nei confronti dei “dissidenti” – su cui tornerò -, il problema per il Pd è il logoramento in atto nel suo rapporto con la città. L’esperienza amministrativa in corso, anziché rappresentare l’occasione per saldare un blocco di consensi attorno al centrosinistra, in una città a vocazione “moderata”, sta creando un corto circuito pericoloso nel rapporto con la società. Nel valutare le difficoltà – il calvario quotidiano dell’Amministrazione – che si riverberano su un partito diventato improvvisamente il più votato dai comaschi, pesa anche il deterioramento del quadro nazionale. E’ accaduto così anche alle precedenti stagioni dominate dal centrodestra: al di là delle prove mediocri fornite in precedenza, a determinare il cambiamento del clima d’opinione verso la giunta di Bruni contribuirono in modo determinante l’appannamento di Silvio Berlusconi e lo sfaldamento del centrodestra. Quando si chiude il paracadute garantito da un trend nazionale favorevole, finisce che a chi governa una città non vengono più concesse franchigie e, anzi, talvolta proprio qui si rovescia per primo il malumore degli elettori. E oggi è evidente, dalle difficoltà che si prospettano alla prossime elezioni amministrative nelle principali città e dalle tensioni create dalla prospettiva del referendum dell’autunno, oltre che dallo scontro tra governo e magistrati, che “la luna di miele” di Renzi è finita

2 – La politica migliore per il Pd – ecco il primo fondamentale consiglio – sarebbe la scelta di mettere la città al centro dell’attenzione – e non il referendum interno e fastidioso su “Lucini sì Lucini no, cosa farà Lucini e cosa non farà”. Non è solo una cosa buona e giusta per chiunque; è anche il metodo più efficace per riannodare i fili di un rapporto divenuto complesso e problematico con i cittadini. Ed è pure una carta da giocare per tentare di “far uscire la mosca dal collo di bottiglia” in cui l’Amministrazione è finita, andando a sbattere quotidianamente contro le pareti in un volo impazzito. Anziché una “verifica”, fossi il Pd, penserei a preparare una Conferenza sulla città, fatta di idee e di proposte. Cercherei di arrivare all’appuntamento con un lavoro volto a recuperare – perché si è perso – un rapporto con i “mondi vitali” della città: quello delle associazioni, quello degli interessi, quello delle professioni, quello della cultura vera (non quella degli arrampicatori e degli opportunisti), quello – sistematicamente trascurato – delle organizzazioni sindacali. Un mondo di esperienze reali più ampie dell’universo autoreferenziale delle nomenklature, un bacino di competenze da valorizzare e di passione civica a cui dare la possibilità di esprimersi.

3 – I temi non mancano. C’è un “pregresso” difficile da smaltire, di cui è inutile fare l’elenco, e che non è tutto colpa di “chi c’era prima” ma anche, va detto, della genericità e del velleitarismo del programma di Lucini, da qualche scelta fatta con una eccessiva leggerezza e da qualche protagonista forse non all’altezza. Fossi il Pd, però, cercherei di recuperare un’idea di città più concreta e più ricca di quella espressa dai messaggi di questi anni, debolmente e confusamente “ambientalisti” e sostanzialmente corrivi con la tendenza della città a chiudersi in sé stessa, rinunciando a svolgere un ruolo da “capoluogo”. Per esempio, affronterei il tema della riorganizzazione di una macchina comunale che è rimasta la stessa dell’epoca del centrodestra, dimostrando limiti pesanti in termini di visione, di efficienza e forse anche di lealtà politica. Poi mi occuperei di un welfare comunale oggi in grave affanno, e non solo per i costi, immaginando nuove forme di gestione e una diretta partecipazione dei cittadini. Poi di cultura, evitando di perseverare nella scelta suicida di inseguire la retorica delle “grandi mostre” ma anche quella altrettanto vuota della “capitale della cultura”. E c’è da recuperare un’attenzione nuova nei confronti dello sport, anche in funzione della qualificazione del brand di Como (pensiamo a che cosa potrebbero significare gli sport acquatici per la città del Lago). Soprattutto, però, punterei su un asse strategico fondato su due punti cardine.

Il primo è il riassetto amministrativo, andando verso il superamento degli attuali anacronistici confini amministrativi del Comune e ricercando un’alleanza strategica con Lecco e soprattutto con Varese, ma anche con Cantù e Mariano, per una migliore integrazione tra queste realtà in funzione del bilanciamento nei confronti dell’Area metropolitana milanese. Il contrario dello stupido e sterile campanilismo del documento della Provincia, con la quale peraltro il Comune dovrebbe stabilire rapporti meno distratti e più esigenti.

Il secondo è un’opera vasta di rigenerazione urbana. E’ inaccettabile che il riuso delle aree industriali dismesse – non esclusa la exTicosa ma non solo–e di quelle lasciate libere dalle strutture sanitarie avvenga al di fuori di un quadro generale, alla spicciolata, a prescindere da un disegno generale. Così come è tempo di mettere mano agli insediamenti popolari sorti, in periferia e in parte anche nella Convalle, in tempi diversi (fino agli anni “70) per realizzare una coraggiosa rigenerazione che tenga conto della nuova realtà delle famiglie – di indigeni e di immigrati – e dei nuovi standard energetici e ambientali. Questioni alle quali non mi sembra che l’attuale PGT, lasco nelle regole e con un asse culturale debole e indecifrabile, sia in grado di offrire delle risposte concrete.

4 – E’ tempo, penserei se fossi il Pd, di abbandonare gli slogan – perché di questo si tratta – della “città turistica” o della “città della cultura”, delle eccellenze nascoste, dei giovani intraprendenti e delle varie “primavere”. E’ tempo di mettere al centro i cittadini, con i loro bisogni e le loro aspettative. Non per inseguire un centrodestra che, a furia di occuparsi solo di panchine e di buche, è diventato anch’esso un elemento dell’arredo urbano, ma per condividere con loro la proposta di una città civile, accogliente, aperta al territorio e attrezzata per intercettare i flussi delle idee, delle risorse e delle persone. Ma, per mettersi in questa postura, bisognerebbe convincersi, per parafrasare il personaggio shakespeariano, che ci sono molte più cose tra il cielo e la terra –o, se si preferisce, tra Rebbio e Sagnino – di quante ce ne siano tra Palazzo Cernezzi e Via Regina Teodolinda, dove sta la sede del Pd.

5 – Invece si scrivono documenti senza capo né coda, in cui, di fronte alla crisi – di questo si tratta – determinatasi con il voto sulla cessione delle quote di Acsm, ignorando che il vero tema è quello del rapporto con la città, da un lato si richiamano i consiglieri dissidenti a una maggiore disciplina, dall’altro si affida la soluzione dei problemi a una “verifica politica” in perfetto stile Prima Repubblica. Ora, di per sé, chiedere che alcuni consiglieri abituati a distinguere il loro voto da quello del gruppo a cui appartengono mostrino una maggiore lealtà è del tutto sensato. Certo, si possono sempre sollevare delle giustificazioni, come la “mancanza di democrazia interna” e la sensazione che sull’Amministrazione gravi l’ipoteca di “un gruppo di potere”. Si può persino aggiungere che la condivisione, prima ancora che su singoli casi, dovrebbe investire la consapevolezza di un progetto, di una prospettiva comune, che il Pd, non solo a Como, non è purtroppo riuscito a costruire. Resta il fatto che, a meno che non siano in discussione “problemi di coscienza” o riserve etiche fondate sulle scelte della giunta, una prassi costellata di dissociazioni sistematiche fa sorgere il sospetto di un’eccessiva strumentalità e di un narcisismo politico poco sopportabile per chiunque.

Il documento della Segreteria del Pd soprattutto, però, tace su un punto per niente secondario: le “dissociazioni” più consistenti e più motivate  politicamente non vengono dall’interno del gruppo del Pd ma dalle altre componenti della coalizione. Se i dirigenti del Pd si ponessero il problema, anziché affidare il rilancio della giunta a una maggiore presenza di propri esponenti (quasi che tutto si possa ridurre a un problema di “poltrone”), dovrebbero prendere atto dello scoloramento della maggioranza, del malessere che attraversa le componenti più a sinistra della coalizione, – ma anche della “sinistra diffusa” in città – che si sono viste mortificate dagli avvicendamenti in una giunta sempre più “democristiana” e dalle scelte compiute dal team di Lucini, oltre che dagli errori commessi dagli assessori e dal sindaco stesso: fatti  di cui sono costretti a pagare il prezzo senza averne delle responsabilità dirette. Se fossi il Pd, metterei anche questo tema all’ordine del giorno. Ma temo che in realtà al Pd questo interessi ancora  meno del resto.

6 – In ogni caso, Como non vive di solo Lucini. A Roma, il Pd non ha certo risolto i propri problemi con il licenziamento di Ignazio Marino. Va bene, facciano pure “la verifica”, ma con quali proposte, con quali idee ci andrà il Pd, e con quale orientamento politico? Si presenterà come un partito che vuole essere il cardine di un centrosinistra riformatore, moderno, concreto ma legato ai valori simbolici di quella parte (minoritaria) di città che lo ha votato,con l’obbiettivo di partire da qui per allargare i consensi o come la caricatura locale di un ondivago “partito della nazione” senza arte né – soprattutto – parte, limitandosi a chiedere “di pesare di più”?

Il tempo stringe. Forse c’è ancora lo spazio per riannodare le fila. Ammesso – e non concesso, probabilmente – che all’interno vi siano le energie necessarie per imporre una correzione della rotta di questi anni. Se il profilo del Pd continuerà ad essere quello di una componente di fatto eterodiretta, in qualche modo subalterna e senza spessore, impiccata al destino politico di Lucini o costretta ad accettare candidature imposte dai “poteri forti” che già sono al lavoro, diventerà invece inevitabile pensare a una coalizione civica. Il futuro di Como, dopo il probabile naufragio del centrosinistra, non può essere affidato a un centrodestra che è lo stesso di cinque anni fa e che si dimostra incapace di avere una qualsiasi idea della città o alle varie versioni di un populismo che non sa nemmeno dove si trovi Como. Per questo occorrerebbero personalità autorevoli, programmi chiari e una generosità politica, che in altre occasioni è mancata, a fare squadra e a sfidare le soluzioni più facili. Quelle, però, che animano una scena politica sempre più disertata dagli elettori. E non sempre senza ragione». [Emilio Russo]

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