Memoria di ieri, lotta di oggi

Piazza Fontana è un nodo centrale per la storia italiana: quel 12 dicembre 1969 è il preludio dello stragismo e degli Anni di piombo e, dopo l’affare Sifar, è stato la conferma ultima e definitiva del fatto che il fascismo, purtroppo, non era stato affatto debellato. Di più, con i diciassette morti di piazza Fontana lo Stato antifascista dell’Arco costituzionale si mostra ormai un felice ricordo, perché se la mano armata è quella dell’eversione nera, il mandante è istituzionale. Cosa significa manifestare in memoria di questa strage nel 2021, 52 anni dopo?

Probabilmente ogni spezzone del corteo che ha animato il corteo di domenica 12 dicembre, partito ed arrivato di fronte alla Banca nazionale dell’agricoltura, avrebbe una risposta sua propria, ma c’è un movente ideale comune. Il corteo in memoria delle vittime di piazza Fontana è stata una manifestazione antifascista che ha ribadito l’aberrazione verso il terrorismo che ha dilaniato l’Italia dal ’69 fino ai primi anni ’80. Un antifascismo che ricorda che, sconfitto il regime negli anni ’40, lo spazio per le camicie nere è finito.

Oltre a questo, c’è il ricordo di Giuseppe Pinelli che, come recita la lapide che lo commemora, è un ferroviere anarchico ingiustamente accusato ed ucciso dalla polizia per un mai dimostrato coinvolgimento nell’attentato. Un dettaglio, questa totale estraneità ai fatti, che sembra essere sfuggito a Giuseppe Sala, il sindaco di Milano. Il primo cittadino ha infatti affermato che la morte di Pinelli è «uno strascico dell’attentato». Questa infelice dichiarazione è stata sottolineata da un coro di fischi, aumentato d’intensità quando Sala ha avuto l’ardire di sostenere che lo sciopero generale del 16 dicembre 2021 è qualcosa di sbagliato.
La tesi dei manifestanti, in questa commistione solo in parte involontaria di passato e presente, pare essere qui avallata: lo Stato ha una posizione definita, da cui non vuole staccarsi, che mira a zittire le narrazioni dei non-padroni, degli operai e degli sfruttati in favore di un infelice tentativo di pacificazione storica che fa gli interessi della destra e dei ricchi.

Il vero spirito dell’iniziativa è emerso invece nel corso del corteo, ed è molto meno edulcorato del discorso istituzionale. «Le bombe nelle piazze, le bombe nei vagoni, le mettono i fascisti, le pagano i padroni!» «Siamo tutti/e antifascisti/e!» «Il 12 dicembre non è una ricorrenza: ora e sempre, Resistenza!», fino al coro abbastanza estremo coniato dai più giovani, tra lo spezzone di Giovani comunisti e quello di Rete della conoscenza: «Mio nonno partigiano, me l’ha insegnato: uccidere un fascista non è reato!». Questi slogan sono chiara testimonianza degli ideali e dell’approccio critico alla commemorazione della strage. Una memoria, come si vede, che non serve a chiudere il circuito di un evento tragico ma cristallizzato nel passato. Quasi genealogicamente, al di là della sfumatura di appartenenza dei/delle partecipanti, il tentativo è quello di ricercare elementi comuni nella compenetrazione tra estrema destra e Stato, per localizzare i nemici della democrazia e delle classi oppresse dal capitalismo e combatterli oggi come ieri.

Di fronte all’espansione sempre più rapida di istanze estremiste, anche in virtù del crescente malcontento sociale, la via tracciata dai e dalle quasi mille manifestanti di domenica pomeriggio pare essere, almeno sul piano intellettuale-critico, la più corretta. Una correttezza che, dati i tempi che corrono e l’omertà istituzionale, sfiora pericolosamente la necessità stringente. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]

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