
È sempre la voce che resta
Il 31 marzo si è tenuto a Pistoia, al Circolo Arci Capostrada, l’iniziativa Donne vita libertà, coordinata da Valentina Vettori, presidente del circolo, alla quale ho partecipato insieme ad alcune attiviste del movimento Donna vita libertà Firenze, a Lara Ghiglione, responsabile nazionale per le politiche di genere della Cgil.
Chiudere così questo mese di marzo, un mese intenso di lavori, dialoghi, iniziative, manifestazioni per la Giornata internazionale della donna è stato un vero piacere, perché abbiamo continuato a illuminare quanto avviene in Iran, ma anche in Afghanistan, dove le studentesse, insieme alle donne di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, impegnata da decenni nella difesa dei diritti delle donne, davanti all’Università Kabul, da dicembre chiusa alle donne, e alle scuole femminili, urlano: «L’educazione è un nostro diritto».
L’Iran è una repubblica teocratica intrisa di imposizioni e divieti che sfociano in violente repressioni, come sta succedendo da settembre 2022 e come è già successo altre volte, prima e dopo il 1979, basti pensare alle rivolte del 2009 e a quelle del 2019.
Ma è contemporaneamente una società istruita e colta, un paese di ragazze che guidano le lotte di popolo con lo slogan, “Donna, vita, libertà – Jin, jiyan, azadî”, ripreso dalle donne curde, che lo hanno usato già 40 anni, fa per indicare un modello di liberazione che immaginava una società nuova, equa e democratica. Qualche anno fa una poetessa di Isfahan, innamorata dell’Italia al punto da imparare
da autodidatta la nostra lingua, dal suo blog – aperto con il nome di Alba Persiana e oggi chiuso dal regime iraniano –, spiegava così il suo coraggioso attivismo: «Vivendo in un paese come il mio, impari che ciò che conta veramente è la qualità della tua vita e non la quantità. Che senso ha vivere in una gabbia dorata tutta la vita quando puoi camminare – scalza – ma libera?».
Faezeh Mardani, curatrice della raccolta di poesie di Forough Farrokhzad (1935 – 1967), È solo la voce che resta. Canti di una donna ribelle del Novecento iraniano, pubblicato per Aliberti editore nel luglio del 2009, scrive: «Questo lavoro va in stampa mentre per le strade di Teheran le donne, cresciute con la poesia di Farrokhzad, muoiono davanti agli occhi di tutto il mondo. È dalla seconda metà dell’Ottocento che le donne iraniane, attraverso la poesia e la parola, testimoniano la loro condizione, lottano per i loro diritti e, quando è necessario, offrono la vita per i loro ideali. La storia continua e si ripete. Ancora oggi le impavide donne iraniane con la loro presenza e con la loro voce proibita raccontano al mondo la tormentata storia della loro terra. È sempre la voce che resta…».
La storia continua e si ripete. E quella voce arriva anche a noi. Ci arriva tramite l’amica che chiameremo Luna, per tutelare il suo anonimato, tramite la giornalista italo-iraniana Farina Sabahi, tramite le immagini e le graphic novel di Marjane Satrapi, tramite l’artista Shirin Neshat, tramite i romanzi di Azar Nafisi,
tramite il blog di Alba Persiana, tramite i libri e le conferenze di Shirin Ebadi, la premio Nobel per la Pace 2003, che ho avuto il privilegio di incontrare due volte e che ci ha insegnato: «Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti».
Essere la voce di tante voci. Essere ponte di connessione tra chi pur di non rinunciare a parlare corre molti rischi fino a quello della vita, e chi, invece ha la libertà di ascoltare, ma non sempre vuole sentire. È quello che hanno deciso di fare, tra le tante, due donne, nate in Iran e ora esuli, una naturalizzata svedese, l’altra che vive, sotto protezione per le continue minacce, negli Stati Uniti, Nahid Persson, regista, e Masih
Alinejad, protagonista, dell’intenso ed emozionante docufilm, che Arci e Ucca hanno proposto per la Giornata internazionale della donna. Be my voice(2021), racconta il quotidiano impegno di Masih Alinejad, la giornalista attivista, voce di milioni di donne iraniane.
Il film doloroso, impegnativo ma energico, potente apre ferite, sveglia coscienze, raccoglie energie e ci chiede di continuare instancabili accanto alle donne in lotta.
Masih Alinejad, in esilio dal 2009, è nota anche in occidente per aver lanciato nel 2014 la riuscitissima campagna La mia libertà clandestina (My stealthy freedom), guidando dall’esilio uno dei più grandi atti di disobbedienza civile dello scorso decennio in Iran, la ribellione contro l’hijab. Nella sua autobiografia, Il vento tra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran (Nessun Dogma, 2020), Alinejad chiarisce con efficacia perché il velo è per le donne il simbolo della lotta per i diritti.
Infatti l’oppressione delle donne e di tutti i diritti umani passa dall’imposizione di strumenti che negano la libertà e affermano il potere maschile sui loro corpi e sulle loro menti.
L’opposizione al velo in Iran riassume in sé la lotta per libertà, diritti, laicità, democrazia, e le proteste per le disuguaglianze economico-sociali e per le tensioni etniche (Jina Mahsa Amini, la cui morte ha scatenato le proteste che poi sono dilagate, era curda).
A proposito delle mobilitazioni, iniziate a settembre 2022 e mai sopite, nonostante la feroce repressione del regime con arresti, torture, uccisioni e esecuzioni, Giuliana Sgrena ha scritto: «Ogni rivoluzione ha un simbolo: il velo lo è per quella iraniana.
Come lo è stato per l’instaurazione della teocrazia di Khomeini. Nel 1979 il chador è stato imposto come espressione delle donne iraniane e ora diventa il simbolo della lotta contro il potere degli ayatollah. L’obbligo del velo ha implicazioni religiose, politiche e ideologiche, per questo è diventato il simbolo della politica repressiva e discriminatoria del regime iraniano».
«Il vento tra i capelli non è solo una suggestione, è una sensazione fisica di libertà. Solo chi l’ha provato può percepirla. (Giuliana Sgrena, in Donne ingannate. Il velo come religione, identità, libertà. Il Saggiatore 2022).
Le molte donne, nate in Iran che ora vivono in occidente, mantengono un legame forte con il paese di origine che hanno “scelto” di lasciare e nel quale vorrebbero tornare da donne libere quando sarà liberato e democratico.
Azar Nafisi, espatriata dal 1997, dopo l’espulsione dall’Università di Teheran per il rifiuto di indossare il velo così spiega le ragioni che l’anno portata a lasciarlo: «La confisca della storia iraniana la perdita della mia identità come persona con determinati princìpi e convinzioni (come donna, insegnante, scrittrice e lettrice) mi faceva sentire orfana, senza una casa, nell’amato paese dove ero nata. Non era solo una questione politica, era ormai esistenziale».
Marjane Satrapi, in Persepolis, la graphicnovel autobiografica (pubblicata in tre parti tra il 2002 e il 2003, e nel 2006 da Sony trasformata in film d’animazione), con immenso talento e irriverente ironia, descrive la sua infanzia in Iran e la sua adolescenza in Europa. Da bambina assiste alla terribile crescente restrizione delle libertà individuali nel suo Paese, da adolescente in Europa per studiare, viene accolta da razzismo e pregiudizi, da giovane donna si trasferisce in Francia dove oggi vive e lavora come illustratrice e autrice di libri per bambine e bambini. Satrapi continua a dare voce al popolo iraniano, come ha recentemente fatto da ospite d’onore alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2022/2023 dell’Università di
Bologna.
Anche Farian Sabahi nella prima parte del suo recente libro Noi donne di Teheran (ottobre 2022) racconta cosa vuol dire essere bambine, ragazze, donne in un paese complesso e affascinante, pieno di potenzialità e contraddizioni. Nella seconda parte, dialoga di politica e diritti con la premio Nobel per la pace 2003 Shirin Ebadi, che instancabile continua a girare il mondo per parlare della sua terra senza diritti e
senza libertà.
L’avvocata iraniana Ebadi è stata, nel 2003, la prima donna musulmana a ricevere il Premio Nobel per la Pace per il suo impegno in difesa dei diritti civili e contro l’umiliante condizione della donna in Iran. A 5 anni dal Nobel, proprio il 10 dicembre, durante una cerimonia per i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani fu chiuso il Circolo dei difensori dei diritti umani di cui era stata fondatrice. Più volte minacciata di morte dai fondamentalisti, fu costretta a lasciare l’Iran nel 2009 e a rinunciare alla difesa di molte donne imprigionate per essersi mobilitate insieme alle ragazze e ai ragazzi che protestavano per i brogli elettorali.
Le donne iraniane ci parlano anche con gli inserti calligrafici nelle immagini potenti in bianco e nero di Shirin Neshat, con i suoi film, con le sue dichiarazioni: «Venire da un Paese in cui abbiamo tanta censura e tanto deve essere ancora nascosto e, al tempo stesso, c’è tanta sovversione nell’aria. Questo è ciò con cui il popolo iraniano ha imparato a fare i conti: l’assenza di libertà di espressione significa trovare modi di
parlare senza davvero aprire bocca».
Ascoltiamole le voci delle donne iraniane, e quelle delle donne afghane, e kurde. Rilanciamole e prendiamo parola anche noi, perché come dice Nafisi: «La cosa più importante è capire che la libertà non deve mai essere data per scontata. Pensiamo ai diritti delle donne: in Italia, negli Stati Uniti, in Francia molte donne hanno lottato per i propri diritti, per esempio per il diritto di voto. E questo per secoli, perché per secoli, appunto, questo diritto è stato negato. Ora in occidente vedo il pericolo che ci si adagi. Mi sembra che non si capisca che anche qui questi diritti non sono acquisiti una volta per tutte. Chi invece lo capisce, capisce subito che è importante sostenere chi sta lottando in altre parti del mondo per gli stessi diritti».
Avremmo fatto bene a darle ascolto e non sottovalutare che a furia di adagiarsi ci si trova con le destre al governo. E mentre in Europa soffia un vento di destra auguriamoci che il vento soffi nella direzione giusta nel paese dei melograni. Che faccia nuovamente danzare i capelli delle donne e arrivi anche qui, dove la prima donna diventata presidente del Consiglio chiede di essere chiamata il presidente. [Celeste Grossi, delegata Politiche di genere Arci nazionale]
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