Limiti in movimento: migrazioni, frontiere, integrazione, incontri

Il 30 marzo a Villa del Grumello, si è svolto Limiti in movimento. Focus sulle migrazioni, un incontro a più voci per riflettere sul tema delle migrazioni internazionali e su ciò che i limiti rappresentano all’interno di questi.
L’invito al dialogo nasce dall’associazione Villa del Grumello che nell’arco del weekend ha organizzato una tre giorni ricca di eventi ed iniziative: Limiti – Humanities Festival si è svolto dal 31 marzo al 2 aprile con l’idea di sviluppare riflessioni teoriche e pratiche in diversi campi, dalle arti visive, al teatro passando per musica e momenti di discussione. L’intento è stato quello di creare un intreccio tra il territorio locale e quello globale interrogando i vari significati dei limiti, siano questi politici, ambientali o personali
.

Nel calendario delle iniziative, l’associazione ha deciso di proporre al pubblico un incontro ad ingresso gratuito invitando relatori, dal territorio e non, con ruoli e prospettive diverse ma comunemente indirizzate verso le migrazioni in senso ampio. L’obiettivo della serata è stata quindi una riflessione sul fenomeno migratorio attraverso la chiave di lettura dei limiti, che possono essere frontiera da superare ma anche come luogo d’intrecci ed incontri tra nuovi e vecchi abitanti.

Sul palco, la curatrice dell’incontro, nonché moderatrice della conversazione, Giulia Galera, ricercatrice ed esperta in temi d’impresa sociale e d’integrazione dei migranti presso Euricse. Accanto a lei si sono alternati Simone Baglioni, professore di Sociologia generale all’Università di Parma, Fabio Cani co-direttore di ecoinformazioni, portavoce della rete Como Senza Frontiere e editore di NodoLibri, don Giusto della Valle, parroco di Rebbio, e Giorgio Bene, dell’impresa sociale Miledù  di Como.

L’inizio del confronto è stato affidato a Simone Baglioni, che ha dato una prima lettura scientifica e generale del fenomeno migratorio mondiale. Dal suo punto di vista, per parlare di migrazione è necessario partire soprattutto dai numeri: questo perché il dibattito politico in Italia ed Europa spesso prescinde da questi, ma è piuttosto veicolato dalle idee sull’altro e dal fatto che gli stranieri possano varcare o meno i confini. Bisogna però considerare i dati e da questi partire per programmare le politiche di migrazione ed accoglienza.

Per prima cosa, i dati più recenti delle Nazioni Unite (2022, purtroppo non considerando le informazioni sulla guerra in Ucraina per le tempistiche di elaborazione delle informazioni) indicano che l’età media dei migranti è 39 anni, la percentuale di popolazione mondiale che migra è di circa il 3% e che il 73% ha tra i 20 e 64 anni, quindi il periodo di maggior attività lavorativa e di sviluppo della propria vita.
Nel contesto europeo, la componente giovane dei migranti è molto ampia, e per un motivo di base: oltrepassare il limite è un’attività selettiva ed è un progetto di vita che non tutti sono in grado di fare. Migrare non è un’avventura ma una progettualità, anche nel caso di guerre e persecuzioni, è il progetto che necessita di risorse (economiche come i soldi, sociali in termini di relazioni verso dove ci si muove e culturali, rispetto alla capacità di conoscere e parlare la lingua dove si va), buona salute, buone ragioni (tema molto ampio e complesso) e spirito d’intraprendenza per sviluppare questo progetto.

Il secondo aspetto evidenziato dal professore è la necessità di considerare che le migrazioni sono selettive principalmente perché dipendono dalle politiche migratorie dei paesi di destinazione. Tra i più importanti corridoi di migrazione in Europa (allargata) nel 2019 troviamo Russia-Ucraina, Algeria-Francia, Turchia-Germania, Marocco-Francia, India-Gran Bretagna. Questi dati dicono chiaramente una cosa: ovvero che molti dei flussi dipendono da scelte ed accordi politici e da stratificazioni storiche che permangono nel tempo come le relazioni tra paesi ex Urss o tra ex colonie con i paesi colonizzatori. Tutte queste dinamiche non sono scomparse col tempo, ma permangono come relazioni economiche e politiche.

Altro tema sono le politiche per l’accoglienza dei rifugiati: nel corso degli anni il numero di rifugiati costretti a scappare ma che si spostano all’interno del proprio paese è cresciuto; inoltre, questo rappresenta la maggior percentuale dei rifugiati perché la migrazione è un processo estremamente selettivo, richiede risorse personali e politiche per poter raggiungere la propria destinazione. Si capisce perciò che, sebbene vi sia uno stato di pericolo, molte persone non possono abbandonare il paese dove si trovano.
Vi è inoltre da sfatare il mito dei paesi ricchi come i maggiori ospiti dei rifugiati (dati per l’anno 2018): i maggiori flussi convergono infatti verso Turchia, Pakistan, Uganda, Sudan, con la Germania, prima a comparire tra i paesi europei, in quinta posizione globale. Nel 2020 vi sono stati altissimi tassi di rigetto di domande di asilo nei paesi europei (69% Spagna, 81% Francia, 46% Grecia, 67% Italia, 77% Svezia, secondo i dati Eurostat); eppure queste persone non abbandonano i paesi ma vi permangono illegalmente senza potersi integrare nelle società dove sono.

In ultimo, bisogna considerare i segmenti di mercato lavorativo che sono dedicati ai migranti, perché questi spesso occupano posizioni professionali che non corrispondono al loro grado di preparazione e che dipendono dal loro status di migranti. Anche in questo caso, ci sono scelte politiche alla base per cui in Italia i migranti trovano soprattutto lavoro in certi segmenti del mercato caratterizzati da basso reddito e specializzazione, mentre nel Regno Unito si è con il tempo creato spazio anche in segmenti più alti.

Concludendo, Simone Baglioni evidenzia come tutti questi aspetti debbano essere messi in relazione; si evince, ad esempio, che le migrazioni portano persone tendenzialmente giovani in Italia (un paese con forti dinamiche d’invecchiamento della popolazione), cui non sono però dedicati segmenti di mercato ad ogni livello ma solo in quelli più bassi; solo con politiche più lungimiranti si potranno quindi costruire modelli d’integrazione che portano beneficio alla società intera.

Successivamente, Fabio Cani ha fornito una narrazione di quelle che sono state le migrazioni nella città di Como nel corso dei secoli, accompagnando il pubblico nel comprendere come e perché la società locale di oggi assuma certe posizioni.
Como non ha un mito fondativo come nucleo cittadino, e quindi si sono create mitologie rispetto alle radici della città come quelle celtiche, senza preoccuparsi dei reali riscontri storici. Essa nasce e si sviluppa da immigrazione forzata portata dall’espansione dell’impero romano, e questo aspetto di costituzione degli abitanti perdura nel tempo, perché poco dopo l’anno 1000, negli atti notarili, molte persone per definire chi sono si indentificavano con l’appartenenza al diritto romano, salico o longobardo. Quindi non vi è una cultura identitaria comune: questa nasce da un crogiolo professionale di artigiani che arrivano qui non per bisogno ma portando la loro competenza.

Più simile al fenomeno attuale delle migrazioni, sono quelle tra fine ‘800 e inizio ‘900, che però sono poco studiate perché molto complicate da ricostruire. In questo periodo, i flussi migratori portarono molti comaschi oltre oceano, come testimoniato dai molti annunci sui giornali dell’epoca per i passaggi sulle navi. Molti dei lavoratori che emigrano erano a Como dei perseguitati politici, che portano anche le loro idee nei territori in cui arrivano.
Recentemente c’è stato il ribaltamento dei flussi con l’inizio delle migrazioni dal Sud Italia, che hanno permesso il fiorire e prosperare della filiera tessile comasca; le relazioni famigliari e di paese hanno portato nel territorio molti migranti, creando gruppi di persone originarie non solo della stessa regione ma addirittura dello stesso comune.
Il ribaltamento definitivo è avvenuto con l’immigrazione internazionale, di cui non si ha nel passato memoria in questi termini. Como ha dato sia prova di accoglienza che d’intolleranza: l’emergenza della stazione San Giovanni nel 2016 è stato un momento storico per la città, costituisce ma anche e solo la punta dell’iceberg del fenomeno.

Per introdurre l’esperienza di don Giusto, è stato proiettato il primo spezzone del video Dall’Egitto a Como, documentario fortemente voluto dalla parrocchia di Rebbio, che attualmente ospita una quarantina di ragazzi lavorando insieme a loro in un comune progetto d’integrazione. Molte di queste storie sono comuni a molte e molti: figli ancora minorenni che abbandonano le famiglie, spesso costrette a indebitarsi per poter permettere loro di partire e lasciando in chi emigra un forte senso sia di colpa che di responsabilità nel dover aiutare la famiglia nel loro paese.

Le parole di don Giusto guidano il pubblico dalle immagini alla narrazione dell’accoglienza sperimentata: il parroco evidenzia come non sia più possibile nascondersi davanti al cambiamento sociale, che vede la popolazione italiana in decrescita e molti giovani (circa 130mila all’anno) un paese che invecchia anche nella testa, e che decade non solo nel corpo ma anche nella mente. Viceversa, la popolazione in Africa invece continua a crescere e molti dei paesi da cui provengono i migranti sono stati recentemente dichiarati “sicuri” dall’Italia. Bisogna quindi capire come integrarsi in queste dinamiche internazionali, nessuno potrà fermare i flussi migratori. La vera sfida – e opportunità – sta nel programmare i flussi e progettare politiche sociali inerenti ad essi invece di subirli. La mancanza di questa visione crea il tipo di disagio e scontento che poi porta a tensioni, intolleranza e razzismo.
Un altro esempio dei problemi legati alla mancata gestione e organizzazione dei flussi migratori è costituito dalle vicende legate al conflitto ucraino-russo: a Como sono arrivati i profughi ucraini, aiutati dalle associazioni e dai cittadini in maniera privata, senza che le istituzioni si attivassero in proposito; vuol dire che si sta giocando una sfida politica sulla paura delle persone, ma si sbaglia in partenza perché non ci si chiede quale paese e città si voglia costruire o stabilizzare negli anni futuri. Nel capoluogo comasco ci sono 12mila stranieri e diverse realtà, associative o informali, organizzate per favorire per l’aggregazione e l’integrazione, così come succede nelle scuole o nelle associazioni sportive, spesso primi motori di buone pratiche integrative; eppure, politicamente questo non interessa, non si vuole vedere quali e quante risorse possano portare i migranti in un disegno più ampio.
In provincia vi sono 960 richiedenti asilo, accolti dal terzo settore perchè purtroppo la Prefettura non ha posti dove poter inserire i nuovi richiedenti. Queste cooperative fanno sentire la loro voce a livello politico? Secondo don Giusto, non come dovrebbero, perché purtroppo, sono molto indaffarate a dover organizzare l’accoglienza di questi flussi, trascurati dalle istituzioni; ciò le priva del tempo e delle energie necessarie per strutturare una loro rappresentanza politica che sieda al tavolo con gli amministratori pubblici.

A chiudere il giro di tavolo, la narrazione della storia di Miledù raccontata da Giorgio Bene, che spiega come si possa promuovere un modello di accoglienza, integrazione e convivenza anche attraverso il rapporto con la natura. Miledù nasce nel 2018 come cooperativa di lavoro con qualifica d’impresa sociale; sin dall’inizio sono stati coinvolti due ragazzi richiedenti asilo, ora soci dell’impresa, proprio si è ritenuto fondamentale valorizzare il loro spirito d’intraprendenza all’interno dell’impresa sociale, integrando e integrandosi nel territorio con i propri servizi di salvaguardia delle tradizioni dei muretti a secco e con i prodotti coltivati nei terreni a Garzola, generando un modello che coniughi solidarietà, ambiente e lavoro.
[Michele Bianchi per ecoinformazioni]

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