
Abitare è ancora un diritto?
Si alza la tensione politica in Lombardia e Milano, ancora una volta avanguardia regionale ma stavolta in negativo, si fa avamposto del nuovo modello repressivo del governo Meloni. La vicenda dell’esperienza politica di Tende in piazza, per come si è sviluppata finora, è esemplare in questo senso.
Nato a maggio, il movimento si è sviluppato spontaneamente dopo che una studentessa, per protestare contro il caro-affitti ormai dilagante soprattutto nelle città universitarie, ha piantato una tenda in piazza Leonardo Da Vinci, di fronte al Politecnico, usandola come giaciglio tra una lezione e l’altra. A stretto giro di posta, è nata un’assemblea alimentata da movimenti studenteschi, spazi sociali e realtà di mutuo soccorso che ha messo al centro la questione del diritto all’abitare. Ne è seguito un paio di mesi di accampamento, caratterizzato da periodici incontri con una giunta comunale apparentemente accogliente ma mai realmente incisiva per rispondere alle istanze dell’assemblea.
Con la ripresa delle lezioni universitarie, il tema dell’emergenza abitativa è riemersa e Tende in piazza ha deciso di non accontentarsi delle apparenti concessioni di Sala, sindaco di Milano, e Pierfrancesco Maran, assessore alla casa e al piano quartieri che ha promesso seicento posti letto e la concessione di case popolari alle studenti. L’elemento di conflittualità, per come è emerso dai canali dell’assemblea, è duplice: da un lato i posti promessi sono troppo pochi, dall’altro non assegnare le case popolari agli aventi diritto significa privilegiare gli studenti, facendo il gioco della gentrificazione e della guerra tra poveri.
Per ridiscutere il modello urbano propugnato tanto a Milano quanto a Bologna, Roma e in diversi altri poli universitari, un’idea di città “gioiellino” a misura di chi può permettersi determinate spese per avere un tetto e garantisce con i propri consumi un elevato profitto a chi gestisce i settori della ristorazione e dello svago, il 16 e 17 settembre è stata lanciata un’assemblea nazionale. Sede dell’assemblea è stato l’ex cinema Splendor, in viale Gran Sasso, occupato nella mattinata di sabato 16.
Nel corso dell’incontro nazionale si è discusso di alternative abitative, questione universitaria e gentrificazione, concludendo in accordo sull’importanza di invertire la relazione tra persone, capitale e spazi, dando priorità alle prime (student3, lavorator3, persone senza fissa dimora e persone migranti su tutte) e marginalizzando l’importanza del profitto. Nella mattina del 19 lo spazio, diventato un tentativo di modello alternativo a quello dilagante, è stato però sgomberato con un ingente dispiegamento di forze militari (sette camionette per undici occupanti rimaste a dormire). L’ordine di sgombero sembra aver colto di sorpresa la stessa giunta, che nel frattempo aveva accordato un tavolo di confronto all’assemblea per venerdì 22, e pare essere giunto direttamente in linea con la linea dura proposta dal ministero dell’interno.
In tutta risposta, Tende in piazza si è spostata sotto palazzo Marino, dove verrà trascorsa la notte in attesa di un incontro con Maran (la cui utilità è, peraltro, dubbia). Allo stato attuale delle cose, la riflessione milanese non può non essere proiettata sul resto della regione. In particolare, sono diverse le affinità tra la situazione meneghina e quella comasca, altra realtà-gioiello, altra città sempre più militarizzata e, soprattutto, altro centro dove la questione abitativa si fa di anno in anno più grave.
Cambiano alcuni dettagli, per esempio a Como la situazione dei trasporti è probabilmente peggiore rispetto a Milano, ma è chiara l’indicazione: il tempo per agire in merito al diritto all’abitare è agli sgoccioli, se non è già scaduto.
Inoltre, è evidente come il sottotesto dei fatti dell’ex Splendor sia l’inasprimento della repressione da parte del governo nei confronti di ogni manifestazione di dissenso. Anche questo dovrebbe spingere ad un’azione politica concreta e unita, laddove c’è da ripensare e riaggiornare una prassi che non tiene il passo della violenza simbolica, giudiziaria e in troppi casi anche fisica legittimata dalle forze di potere.
A fronte di tutto questo, non si possono che fare due cose: solidarizzare con le iniziative in merito sui vari territori liminari ed organizzarsi a propria volta sul proprio per creare conflittualità su un tema che, presto o tardi, rischia di diventare realmente collettivo. Anche in una città capace di invisibilizzare le problematiche come è Como. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]