Contro la scuola di regime

scuola21Sarà presentato a Roma nella sala Kirner in via Ippolito Nievo 35 sabato 17 gennaio alle 9,30 nel convegno Contro la scuola di regime: per la scuola della Costituzione il documento elaborato dall’Associazione per la Scuola della Repubblica e dalla rivista comasca école. 

Nell’attuale situazione di crisi e di attacco al diritto costituzionale all’istruzione l’associazione nazionale Per la scuola della Repubblica e la redazione della rivista école, idee per l’educazione hanno elaborato il documento Per la scuola della Costituzione che riportiamo integralmente nel quale si analizza la situazione e si propongono linee di azione per una reale innovazione.

 

Accuse alla scuola e interventi governativi

È convinzione diffusa, nonché erronea che un incremento del livello di scolarità costituisca un aggravio economico a carico dello Stato. Molti dati dimostrano che l’assenza di una formazione scolastica prolungata produce notevoli danni sociali e, conseguentemente, ripercussioni  negative di carattere economico ben più onerose di quanto sia l’investimento per una scolarizzazione diffusa. Da decenni la scuola continua ad assistere all’alternarsi di governi che – in maniera più o meno convincente – si applicano ad un tentativo di riforma che vede però, quasi comune denominatore, la scuola vittima di tagli economici che non consentono, ovviamente,  operazioni ordinamentali e pedagogiche dall’ampio respiro culturale. 

Se un’idea di scuola presuppone un’idea di società è evidente che le cosiddette riforme della scuola, governo dopo governo, si sono ispirate ad un progetto di asfittica matrice economicista.. 

E’ prevalsa una logica progressivamente sempre più neoliberista nella quale la mancata monetarizzazione del valore-scuola e l’impossibilità di quantificare economicamente l’investimento hanno rappresentato un deterrente ad occuparsi della scuola in modo culturalmente significativo

Dalla legge sull’autonomia scolastica la scuola è stata progressivamente spostata su un mercato che, oltre a rappresentare una sede antitetica a quella che il dettato costituzionale le assegna (dalla scuola-azienda alla scuola-fondazione), configura uno spazio in cui vengono perpetrate gravi disomogeneità ed iniquità di carattere sociale. Si è ignorata, cioè, la funzione costituzionale della scuola, e il suo essere concretamente la massima forma di proiezione verso il futuro.

Il violento attacco mediatico e politico alla classe docente in atto da qualche anno, poi,  evidenzia in maniera strumentale fenomeni di cui si è sempre saputo, di cui  occorre occuparsi con urgenza, competenza, rigore e investimenti, rilanciando un’immagine positiva di tutta la scuola – in particolare di quella parte enorme di essa che lavora con convinzione e competenza, ma che non ha voce sui grandi quotidiani nazionali,–immagine oggi completamente distorta, alimentata esclusivamenete dal bisogno di argomentare la necessità di tagli. 

 

Risposte sbagliate alle esigenze di cambiamento

La crisi si è acutizzata a partire dagli anni ’90, quando il sistema scolastico italiano ha manifestato difficoltà nel rispondere al crescente bisogno di istruzione, di sapere, di cittadinanza in un mondo in rapida trasformazione, disorientato da spinte contrapposte, da richieste di modernizzazione,  sirene del mercato, e da autentica. domanda di cultura.  Ne è derivato un bisogno di cambiamento, conseguenza, anche, di una scuola superiore divenuta nel frattempo scuola  di massa,  del manifestarsi di un profondo e diffuso disagio giovanile e – come dimenticarlo?- di continuo e progressivo ingresso – anno dopo anno – dei “nuovi” italiani nelle scuole del Paese.

Alla necessità di mettere la scuola in condizione di corrispondere a questo bisogno di cambiamento e alla nuova domanda culturale, da più parti si è risposto non con un’offerta culturale-formativa qualificata  in grado di far fronte  al crescente disagio giovanile  in un contesto di «accoglienza» coerente col problema del suo profondo rinnovamento; si è scelta, invece,  la via di un modello socializzante che sembrava attutire le contraddizioni di una generazione di giovani diversa e cambiata. 

Da qualche anno sta verificandosi una tendenza ad assegnare alla scuola, trasformata sempre più in contenitore di svariate, generiche attività ed educazioni, una funzione – oltre tutto inadeguata poiché su un terreno che non le è proprio – solo apparentemente terapeutica, poiché offre risposte al disagio giovanile di basso profilo culturale in chiave individualistica o di gruppo ristretto, e occasionali, senza perciò garantire ai singoli vera cittadinanza. In particolare si è continuato ad ignorare la scuola media,  da decenni alle prese con la difficoltà di far fronte al suo compito di scuola precocemente conclusiva dell’obbligo (nonostante le “simulazioni” di innalzamento intervenute nel frattempo), imbalsamando i licei in un modello apparentemente fedele all’impianto gentiliano,  in realtà minato da una serie di debolezze interne, che lo rendono non più adeguato finanche a quel modello, di per sè obsoleto, in virtù di un abbassamento del livello di autorevolezza culturale che lo caratterizzava. La trasmissione di un tipo di cultura non più centrale rispetto agli spazi accresciuti, il mutamento delle finalità culturali e sociali di quel modello, il rischio concreto di un impoverimento generalizzato dei livelli di competenza e di conoscenze si sono accompagnati alla difficoltà a modificare, peraltro, in senso culturalmente significativo e aggiornato,  le conoscenze e le competenze scientifiche e tecnologiche dei Tecnici e dei Professionali. 

Uno sviluppo non coordinato di tipo liberistico, in una malintesa accezione di autonomia scolastica,  ha tentato di qualificare l’offerta formativa della scuola attraverso l’erogazione spregiudicata di progetti,  che ne hanno intaccato la qualità sostanziale. Si è tentata – di fatto – con la stagione dei tanti progetti – che non hanno però inciso sulla qualità sostanziale della scuola, ma hanno semmai allontanato la presa di contatto delle urgenze della scuola stessa – una scelta di “modernizzazione” senza procedere ad una contestuale azione di riforma. Ciò ha contribuito a creare una forte distorsione dell’interpretazione del principio dell’autonomia scolastica intesa come autonomia delle singole scuole affidate nella gestione ad una “dirigenza scolastica” subalterna al potere ministeriale e separata da un rapporto collegiale  con i docenti. Oltre ad avvilire la funzione docente si è indebolito, in maniera forse irreversibile, il sistema scolastico. 

 

Reazioni del mondo della scuola

E la scuola dove era? Lontana dai luoghi delle decisioni, privata di indicazioni che potessero tracciare un percorso convincente, in attesa di una riforma organica e complessiva, è stata irretita nel guado di un processo incompiuto, che l’ha privata non solo della reale capacità di incidere, ma anche di  prestigio in termini di autorevolezza culturale, mentre nel frattempo – fuori-  parole come cultura, educazione, istituzione, ma anche capacità critica, approfondimento, studio erano improvvisamente diventate non tanto impopolari, quanto obsolete.  

Tutto ciò ha rinforzato perdita di autorevolezza, di mandato specifico e incoraggiato una visione progressivamente familistica che – di pari passo con la celebrazione e il potenziamento della scuola privata – ha portato con sè clamorosi messaggi, come quello della ministra Moratti, che inseriva la famiglia tra i 3 “attori” scolastici (famiglie, alunni, insegnanti): la scuola sempre più marcatamente ambito di intervento spregiudicato da parte di chiunque.

Ne è derivata  una frammentazione all’interno delle scuole che ha reso il “mondo della scuola”  una formula sempre più stereotipata,  lontana dalla realtà. Questo, in molti casi, ha rischiato di trasformare le mobilitazioni, i movimenti – anche i più efficaci e costruttivi – in una reazione alle circostanze immediate e non in occasione per inaugurare una riflessione comune su un problema culturale complesso e delicato quale quello che investe da anni globalmente la scuola italiana, mentre spesso gli insegnanti italiani hanno derogato alla propria funzione intellettuale intesa in senso ampio. Le mobilitazioni, negli ultimi decenni, e recentemente,  nei confronti dei provvedimenti del governo Berlusconi, si sono connotate come reazioni a situazioni di emergenza. Tale atteggiamento configura un’idea di scuola non come sistema organico  sotto il profilo didattico e della cura dello sviluppo dell’emancipazione degli individui – gli studenti di oggi e di domani- ma come  sistema settoriale, scollato completamente da qualunque idea di verticalità ; esso marca poi una vistosa lontananza tra ordini di scuola che – attraverso dialogo, coesione, solidarietà – indicherebbero alla politica e all’amministrazione un “mondo della scuola” come interlocutore non solo nominale. Un mondo della scuola più forte, perché compatto, sinergico nella rivendicazione della propria funzione culturale, educativa, intellettuale,     capace di elaborare, comunemente, idee e resistenza. 

 

Una scuola per i giovani che chiedono formazione

La Costituzione nell’imporre l’ “obbligo scolastico”, sancisce al tempo stesso il  “diritto alla scuola” nella quale assolverlo – non un generico diritto alla formazione – e, per la Repubblica, l’impegno a garantirne l’esercizio su tutto il territorio nazionale. Ne consegue che la scuola non può essere un’area di parcheggio da lasciar sopravvivere ignorando che si tratta di un’istituzione  chiamata a vivere in una società caratterizzata da un’accelerata trasformazione delle forme di comunicazione, da un confronto ravvicinato fra culture diverse e da radicali mutamenti nei processi produttivi. Per avviare un reale cambiamento, occorre, quindi, avere il coraggio di promuovere un patto di riedificazione che veda la collaborazione di una classe politica sensibile, di una società civile attenta, di insegnanti consapevoli, di studenti che abbiano ben chiaro il proprio legittimo ed esigibile diritto a diventare – attraverso la scuola – cittadini consapevoli, autonomi, liberi. Per i giovani, soprattutto, un’istanza di cambiamento è contrastante con il retroterra di basso livello culturale a cui sono stati addestrati; simbolicamente orfani del padre, del principio di autorevolezza, di un’idea forte e grande; educati in una scuola che spesso ha perso voglia ed energia per convogliare messaggi non strettamente disciplinari, che spesso non dialoga e non risponde ai loro “perché”; spettatori annoiati della pseudo politica, respingente e tossica, priva di contenuti, di propositività, di prospettive, dunque di possibilità di attrarre e appassionare; ebbene, in questo panorama desolante, i ragazzi sono quasi sempre all’altezza della situazione e dimostrano nelle circostanze importanti di sapersi organizzare. 

Sono molti quelli che leggono, si documentano. Comprendono che una delle poche occasioni che hanno per contrastare un destino generazionale è quella di mantenere come valore irrinunciabile e diritto esigibile quello allo studio, dimostrando una maturità stupefacente, considerate le circostanze. A questi ragazzi, tanti, moltissimi, bisogna non solo garantire cultura, cura, ma anche una risposta convincente ai “perché” che essi pongono. In un mondo caratterizzato da diversità e complessità questi perché sono difficilmente risolvibili attraverso gli strumenti tradizionali e immutabili che la scuola ha messo a disposizione: un disciplinarismo rigido e intransigente, così come uno psicologismo di basso spessore culturale non possono rappresentare più una risposta soddisfacente. E rischiano di trasformare la scuola in un “ non luogo” fuori del quale vive, pulsa, si modifica la realtà.  Proprio per questo è necessario ripensare la questione degli insegnanti, interrogarsi su quale cultura nella scuola, rivedere il problema dell’autonomia nella  sua gestione 

 

La questione degli insegnanti

La deroga al proprio ruolo primario di luogo dell’istruzione e la conseguente progressiva perdita di autorevolezza culturale e sociale della scuola hanno investito in particolare la funzione docente, acutizzando, una conflittualità sempre meno latente e sempre più esplicita tra insegnanti e genitori. La confusione reciproca dei ruoli – il genitore e l’insegnante – di chi deve “educare” ( il tema del “condurre, del fare strada”) – ci dice il disorientamento di una società le cui tracce, i cui sentieri da percorrere sono sbiaditi, poco riconoscibili. Sempre più incerta appare la consapevolezza che chi insegna svolge una funzione sociale e culturale all’interno di una pubblica istituzione e non in centro educativo privato. E’ fondamentale avviare una seria riflessione sulla professionalità dei docenti; riflessione decisa, tanto nell’affermare le proprie ragioni, quanto nel rifuggire atteggiamenti di autocommiserazione o rigurgiti ideologici che rifiutino tassativamente di prendere atto della diversità di atteggiamenti e di prestazioni presenti fra i lavoratori nella scuola.  Rifiutare a priori soluzioni muscolari e arbitrarie non significa continuare ad avallare l’esistenza di nicchie corporative che tutelino indiscriminatamente anche chi vive questa professione non convinto fino in fondo del senso del proprio mandato costituzionale. Nel contempo è necessario  esigere la necessità che chi – viceversa – di quel mandato ha fatto e fa la propria bandiera etica e professionale- lungi da ogni idea di “premio” per aver fatto semplicemente il proprio dovere- ottenga un riconoscimento incontrovertibile e riassapori il senso di una funzione sociale pienamente riconosciuta. Bisogna che tutti – mondo politico e sindacale in primo luogo – comprendano che non esistono buone riforme che possano essere applicate da insegnanti mediocri. Il contributo e il lavoro degli insegnanti qualifica la scuola più di ogni altro apporto. Occorre assumersi il rischio dell’impopolarità e avere il coraggio di iniziare a scardinare un sistema che è vissuto sull’ambiguità di una scelta – caratterizzata da una sorta di implicito “patto scellerato” (“vi diamo poco, fate poco”) –  che ha talvolta sacrificato la valorizzazione, la difesa dell’autorevolezza degli insegnanti: pubblici funzionari-caso unico nella Pubblica Amministrazione- dipendenti ma non subalterni, ai quali la Costituzione garantisce libertà d’insegnamento. Una particolare attenzione deve dunque essere riservata alla formazione (iniziale ed in itinere) dei docenti, ispirata ad un’idea di dignità professionale che tenga dentro le competenze disciplinari, quelle relazionali e la consapevolezza del mandato costituzionale. 

 

Una nuova cultura 

La scuola è posta di fronte al problema dell’aumento vertiginoso delle conoscenze che impone, pena una sua arretratezza e separazione dalla cultura moderna, successive e sempre più difficili scelte per ridefinire via via un sapere scolastico che sia culturalmente significativo, moderno ed efficace sotto il profilo formativo. E faccia tesoro del radicale ripensamento del patrimonio culturale accumulato nel passato nelle diverse società, avviato nel secolo scorso e accelerato – attraverso anche fenomeni quali il ripensamento radicale della cultura al femminile e l’irrompere dell’intercultura – che hanno immesso nel sistema tradizionale elementi eterogenei ma qualificanti nell’individuazione di un modello di cultura che faccia i conti con la  diversità e la complessità del mondo. Il nodo da affrontare sembra decisamente essere quello che consiste nell’individuare il cosa, il come e il “in che modo” insegnare per rispondere da una parte a perché diversificati e divergenti rispetto al passato; dall’altra al cosa sia e cosa debba essere oggi la cultura scolastica, elemento attivatore e acceleratore di diritti di cittadinanza. Per affrontare questa problematica occorre innanzitutto ipotizzare uno slittamento di prospettiva dalla cultura alle culture, intese non solo come apertura a tradizioni altre, ma anche come rapporto tra culture (alta, bassa, contaminata): operazione necessaria per arrivare ad un processo di reale scolarizzazione di massa che sia strumento di inclusione per i ragazzi provenienti dalle fasce più deboli della popolazione. Non bisogna dimenticare che il 70% degli studenti delle superiori frequenta i Tecnici e i Professionali. 

L’enciclopedia dei saperi deve essere sottoposta, dunque ad una revisione che tenga presente come e quanto i contenuti delle discipline, adattati agli stili cognitivi e sottoposti ad una intenzionalità didattica rinnovata, rappresentino il più potente viatico per interpretare l’esistente. In questo tempo, quindi, di costante sviluppo delle innovazioni tecnologiche, del patrimonio delle scienze, della ricerca storiografica, della critica letteraria, è necessario più di prima che i contenuti da trasmettere e le metodologie da usare a scuola siano selezionati non sulla base dei criteri dell’accademia, ma della funzione formativa che devono assolvere. La vecchia critica al nozionismo diventa oggi critica allo specialismo e alla parcellizzazione dei “saperi”. L’individuazione di “luoghi” trasversali alle discipline sui quali riflettere; l’osservazione della omogeneità – diacronica e sincronica – di esiti della produzione umana (in campo scientifico, musicale, letterario, artistico, filosofico) trasferiscono la prospettiva da un affastellamento di nozioni a criterio comparativo, di decodifica e di interpretazione del passato e del presente. Tale approccio affida alla scuola il compito non solo e non tanto di comunicazione, quanto di mediazione culturale a scopo formativo: cogliere la storicità dell’umano, in rapporto alla localizzazione delle sue fasi evolutive; individuare criteri per districarsi all’interno dell’immaginario collettivo, che oggi più di ieri avvolge e mistifica sia  la realtà dei rapporti sociali con una coltre fitta e organica; acquisire competenze per partecipare all’accelerata evoluzione delle conoscenze scientifiche; rafforzare i criteri di decodifica di un mercato che impone dis-valore e affida ai giovani il ruolo di consumatori acritici. 

Le tecnologie sono destinate – con un colpevolissimo ritardo – a rappresentare uno strumento imprescindibile per questa riedificazione: a una visione “addestrativa” (prevalente nella scuola italiana) occorre sostituire una dimensione culturale in senso ampio che individui nelle procedure tecniche un sostegno per i modelli cognitivi e nel Web la garanzia di un potente sistema di accesso democratico al sapere e al mondo. Ad una seria rivisitazione dei paradigmi epistemologici delle discipline e all’inserimento dei nuovi alfabeti finalizzati a decodificare forme di espressione non verbali deve sempre aggiungersi la cura e la relazione educativa; non come optional volontaristico e temperamentale, ma come conditio sine qua non:  svolgere l’impegnativa funzione di insegnante presuppone questi  punti chiave per una proposta di riforma della scuola che tenti di incidere sulle condizioni del reale.   

La scuola dello Stato come luogo di formazione culturale, etica, della coscienza critica e dell’emancipazione ha infine come suo presupposto imprescindibile il rifiuto assoluto di qualunque tipo di subordinazione a forme di pensiero unico, soprattutto se ispirate a logiche confessionali. Ribadire la laicità come elemento fondante della scuola statale significa garantirne e difenderne il mandato costituzionale e rifiutare qualunque forma di ingerenza di carattere ideologico sul principio della libertà di insegnamento, sulla difesa di un reale pluralismo, sull’applicazione del principio di uguaglianza. 

 

Nuovi ordinamenti 

La revisione dell’enciclopedia dei saperi in senso non accademico, il superamento del nozionismo e un nuovo concetto di autonomia non mercantilistico e non gerarchico trovano accanite anche se non dichiarate resistenze che si basano su alcuni principi taciti stabiliti dall’accordo corporativo-ministeriale (l’opposto della logica repubblicana). Questi principi che  rappresentano il trionfo dell’Italia burocratica erano e sono: conferma del percorso quinquennale rigido (bienni separati e strettamente propedeutici ciascuno al proprio triennio; liquidazione delle sperimentazioni di struttura; centralità dell’orario ripetitivo e rigido, con innovazioni quasi solo aggiuntive; separatezza delle discipline; esclusione di ogni protagonismo dei giovani nella co-determinazione dei propri obiettivi di conoscenza; primato della quantità sulla qualità; trasformazione dell’esame di stato in un’entità indefinibile, con risultati non confrontabili, non monitorabili, perché se non è più una prova selettiva e nozionistica non è nemmeno chiaro quali nuovi standard presupponga.  

 Gli appelli alla serietà dello studio oggi di moda, spesso intrisi di una concezione  punitiva e gerarchica della cultura, si scontrano comunque con questa difficoltà preliminare: quella di stabilire che cosa e come sia importante studiare. Sarebbe fare demagogia attribuire al mondo della scuola la capacità di fare da solo queste scelte; non si possono però lasciare le scelte di fondo al ministero e al mondo della politica.

Da questa situazione si esce solo con un profondo ripensamento e ricompattamento qualitativo dei percorsi di studio, operando per aree omogenee e non per sommatoria di pezzi di discipline; attribuendo agli insegnanti precise responsabilità di progettazione individuale e di gruppo che riassorbano nel lavoro istituzionale le energie oggi dedicate all’effimero di progetti e progettini dei Pof, con uno specifico orario di servizio settimanale e stagionale dedicato a ciò; ritornando al principio del biennio unitario, cioè a un biennio secondario a struttura unitaria, tale da fornire a tutti una formazione culturale di base sufficientemente solida ed al tempo stesso da consentire ai ragazzi la sperimentazione di percorsi differenziati; riducendo il numero delle discipline; sviluppando gli elementi di scelta; attribuendo ai minori forme di libertà proporzionali all’età; liberando gli uffici amministrativi dal lavoro improprio (per es. di agenzia turistica) per metterli al servizio della didattica.

In questo quadro il nodo del biennio è centrale: deve essere l’occasione per  un ripensamento in chiave unitaria e progressiva dell’intero percorso educativo della scuola dell’obbligo.

Un punto centrale  su cui lavorare è anche quello dei rapporti tra scuola secondaria e università, in uno scambio che vada in una duplice direzione, dall’università alla scuola secondaria e viceversa, sia per quanto riguarda la formazione dei futuri insegnanti, sia per quanto riguarda l’aggiornamento in servizio, sia per una ristrutturazione della didattica (nella sua valenza formativa e di ricerca e non meramente trasmissiva) quasi del tutto assente in ambito universitario. 

Si tratterebbe di creare  spazi-cerniera, comuni tra scuola e università, il che vuol dire che realmente l’università potrebbe diventare centro di ricerca anche didattico e che le scuole a loro volta anche centro di sperimentazione e di arricchimento culturale, a differenza di quanto avviene generalmente oggi.

L’esperienza delle Ssis, pur con tutti i difetti dovuti in parte all’ingessatura dell’università e della scuola secondaria, ha forse ancora qualcosa da insegnare e può essere utilmente ripensata nella prospettiva di percorsi di lavoro comune tra scuola secondaria e università che mettano al centro le esigenze concrete di formazione dei futuri insegnanti. 

Infine è da sottolineare che lo spazio-scuola (forma, dimensione, posizione nel contesto urbano, architettura, arredo) non  è indifferente ai processi di apprendimento e di relazione, così come non lo è la casa di abitazione.

La condizione delle strutture scolastiche italiane è davvero indecente, da molti punti di vista: la sicurezza fisica delle persone non è garantita; un numero impressionante di strutture scolastiche sono “adattamenti” precari di strutture con altre destinazioni d’uso; un numero impressionante di scuole non è dotata di ambienti per servizi essenziali (laboratori, palestre ecc.); il patrimonio edilizio ha costi di manutenzione stratosferici e si contraddistingue per l’elevato spreco energetico e per standard ambientali di basso livello; il progetto architettonico è nella stragrande maggioranza dei casi indifferente al benessere psico-fisico degli abitanti della scuola e privo di qualsiasi dignità formale. 

È necessario investire in questa direzione risorse economiche e intellettuali. La confluenza, intorno a un progetto di scuola nuova, di diversi orizzonti (quello degli insegnanti, quello di architetti, urbanisti, sociologi, delle amministrazioni locali, delle associazioni, delle imprese) sarebbe un benefico esercizio di cultura di un bene comune. 

 

L’autonomia scolastica ha bisogno di un ripensamento 

La capacità degli insegnanti di gestire al meglio il lavoro quotidiano e il rapporto con gli studenti deve integrarsi con la capacità e la possibilità di contare nella complessa gestione dell’intero sistema formativo, interloquendo autorevolmente con l’amministrazione e l’accademia, in un mutato rapporto. In questo senso occorre inaugurare un’autonomia   funzionale e non territoriale, con organi centrali di autogoverno del sistema nel suo complesso, punto di riferimento dell’autonomia delle unità territoriali, in grado di monitorare l’impatto tra le trasformazioni sociali e tecnologiche e la formazione delle nuove generazioni, al riparo da influenze dirette di centrali ideologiche, confessionali e politiche che perseguono finalità particolari. In questo quadro e nell’ambito della linee definite dal Parlamento, gli organi di autogoverno del sistema formativo definiranno le relazioni con le espressioni della società e della cultura a livello nazionale e locale. Autonomia dunque del sistema formativo che deve pur sempre essere pubblico, democratico e nazionale; non quindi autonomia dallo Stato, ma autonomia nello Stato, e più precisamente nello Stato delle autonomie. Cioè, la Scuola della Repubblica.

La capacità di risposta delle scuole deve esprimersi, però, in modo concertato, in un quadro di certezze istituzionali valide su tutto il territorio nazionale a cui piani di studio, curricoli, obiettivi, finalità non possono non riferirsi; in questo contesto le legittime istanze locali possono trovare una mediazione significativa e possono assumere il valore non di allontanamento o, peggio, di svuotamento, bensì di arricchimento del comune disegno nazionale di istruzione e di elevamento culturale del Paese che, a tutt’oggi, presenta gravissimi ritardi. Inserire la scuola in un mercato dove chi più è in grado di pagare avrebbe un servizio migliore legittimerebbe chi legittima, confondendo le funzioni e i ruoli chiaramente indicati nella Costituzione, l’introduzione delle scuole private in un unico sistema pubblico con danaro pubblico sottratto alla scuola statale. Riconoscendo nel sistema pubblico la presenza, a pieno titolo, di scuole non aperte a tutti, cioè non espressioni di pluralismo, premessa ineliminabile di ogni sapere critico – bensì di appartenenza culturale, ideologica o religiosa, dove il massimo del pluralismo consentito sarebbe, inevitabilmente, l’esercizio della tolleranza rappresenta di fatto il tradimento della Scuola della Repubblica».

Per informazioni redazione di école Como 339.1377430.

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