Storia e propaganda

Solo gli strumenti critici della storia permettono di comprendere il significato del Giorno del Ricordo fuori dalle letture di parte della propaganda. Un incontro organizzato dall’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta con Roberto Spazzali e Gino Candreva venerdì 26 febbraio.

Il complesso e conflittuale rapporto tra storia e propaganda è stato al centro dell’incontro organizzato venerdì 26 febbraio alla biblioteca comunale dall’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta in occasione del Giorno del Ricordo.
«Questa ricorrenza del calendario civile – ha spiegato Lidia Martin, dell’Istituto Perretta, che ha coordinato i lavori – non ha una funzione unificatrice come quello della Memoria, ma suscita contrasti e polemiche per l’errore di raccontare solo una parte di storia, quella finale astratta dal contesto con quella che Alessandra Kerstevan ha felicemente definito “mala storiografia”. Per questo l’iniziativa dell’Istituto Perretta è stata quella di proporre interventi di chi fa ricerca utilizzando gli strumenti della ricerca storica».
«Sono temi che suscitano interesse – ha spiegato Roberto Spazzali, dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia Giulia – perché la storia della Venezia Giulia è la storia dell’Italia e dell’Europa e le vicende tragiche accadute sul nostro confine orientale sono paradigmatiche, possono essere utili per comprendere altre situazioni di crisi. Si tratta di un problema civile, comprendere quello che è successo può essere un primo passo per costruire un avvenire diverso».
Insegnante e ricercatore dal 1984 Spazzali ha raccontato come all’inizio fosse difficile occuparsi di questi argomenti su cui era calato l’oblio, il tutto era etichettato come questione locale per fattori di diverso opportunismo politico.
Il 10 febbraio 1947 l’Italia fu sottoposta al Trattato di Parigi dalle potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale, ma la celebrazione della vittoria sul nazifascismo del 25 aprile rendeva meno evidente il fatto che fosse uscita sconfitta dalla guerra e che dovesse accettare le condizioni tra cui la ridefinizione dei confini.
L’Italia, dal canto suo, aveva commesso numerosi errori tra il 1918 e il 1920 nei territori acquisiti dopo la prima guerra mondiale, per esempio con l’abolizione dei patti agrari e poi con l’avvento del fascismo con la chiusura delle scuole croate e slovene: il fascismo come sinonimo di italianità fu un grande inganno.
Spazzali ha poi fatto chiarezza su molti aspetti della questione spesso distorti e strumentalizzati. Le tensioni tra croati, sloveni e italiani erano già iniziate con l’emergere dei grandi partiti di massa. L’esodo degli italiani da quelle terre non fu rapido e improvviso, come quelle biblico degli anni ‘90 in Bosnia, ma fu un lungo stillicidio durato dal 1943 al 1956. Infine il numero degli scomparsi: le persone sepolte nelle cavità carsiche, secondo i dati più attendibili, sono meno di 500 (271 salme recuperate in Istria).
Complesso ricostruire avvenimenti in questo territorio particolare: tra i rivoluzionari croati del Castello di Pisino che barattavano la vita dei prigionieri con i pochi oggetti di valore rimasti alle famiglie c’erano anche italiani; quando l’esercito jugoslavo entrò a Trieste il 1 maggio 1945, disarmò e fermò i giovani del Comitato di Liberazione Nazionale che erano insorti il giorno prima e molti di loro finirono nelle liste di proscrizione, furono catturati e deportati in campi di internamento secondo la tragica dinamica delle “idee assassine” di Conquest.
«A Trieste c’erano due partiti comunisti negli anni ’60 – ha concluso Spazzali –  e di questi fatti non se ne poteva parlare perché agli Usa nel 1948 tornava utile la posizione antisovietica di Tito perciò la questione andava chiusa seguendo la dinamica della guerra fredda. Oggi nella nostra città vivono 8000 serbi e 2500 albanesi inseriti nel tessuto sociale, hanno iscritto i loro figli nelle scuole italiane, non provano nessun risentimento, sentono il potere attrattivo della cultura italiana».
Gino Candreva, insegnante e redattore della rivista Zapruder del progetto Storie in movimento, si è soffermato sulla scelta del 10 febbraio come data del Giorno del ricordo: istituito con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, vicino nel calendario al 27 gennaio, Giorno della Memoria, facile a confusioni anche nel nome con l’intento di “olocaustizzazione” delle foibe attraverso un parallelo inaccettabile.
«Nel corso degli anni – ha commentato Candreva – gli italiani da vittime sono diventati martiri della loro italianità con una terminologia che rivela revanscismo nazionalista e a ciò si intreccia la riproposizione dei miti della vittoria mutilata e degli “italiani brava gente”». Altro luogo comune l’abbinamento della visita della Risiera di San Sabba a Trieste e la foiba di Basovizza.
Candreva ha poi proposto un breve filmato di analisi della fiction Il cuore nel pozzo prodotta dalla Rai, vista nel 2005 da 17 milioni di telespettatori e riproposta anche quest’anno in occasione del Giorno del Ricordo.
Senso comune nazionalista e anticomunista sono gli ingredienti della storia (consulente il prof. Giovanni Sabbatucci, docente di Storia Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma) in cui l’eroe è un alpino della divisione fascista Monterosa, i partigiani jugoslavi sono dipinti come feroci assassini e il ruolo dei bambini è fortemente strumentale. A uno di loro, orfano di genitori infoibati, viene affidato il messaggio centrale: i soldati italiani vengono accusati di vigliaccheria, di avere abbandonato le armi e non avere combattuto contro gli slavo comunisti. Candreva ha poi denunciato una preoccupante tendenza politica a dettare quello che gli storici devono scrivere sui manuali scolastici e come denaro pubblico sia usato in grande quantità per acquistare libri pubblicati da case editrici di estrema destra, che poi vengono distribuiti alle scuole.
«C’è ancora tanto da chiarire su questa questione per costruire una vera coscienza europea – è la conclusione di Candreva -, ci vorrà tempo, ma il nostro compito è quello di lasciare gli strumenti su cui lavorare a chi verrà dopo. [Antonia Barone, ecoinformazioni]
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