Guerra in Libia/ Lottare per l’autodeterminazione dei libici

Nicola Casale, del  Comitato lavoratori contro la guerra, ha sintetizzato per ecoinformazioni i temi trattati nel suo intervento all’assemblea del 1 aprile alla Cascina Massé di Albate. Cosa succede in Nord-Africa?

La scintilla che ha scatenato la rivolta in Tunisia. Muhammad Bouazizi, giovane venditore ambulante “irregolare” si è dato fuoco perché umiliato dalla polizia che gli ha sequestrato le misere merci che tentava di vendere e schiaffeggiato da una poliziotta.

La scintilla che ha scatenato la rivolta in Egitto. Halid Muhammad Sa’id, 22 anni, aveva postato su Youtube un video che mostrava la polizia dividersi il bottino di un sequestro di droga. La polizia lo picchia selvaggiamente con la testa contro il marmo di un caffè. Halid Sa’id scompare. Gruppi di giovani sempre più numerosi chiedono giustizia per lui e denunciano l’oppressione poliziesca.

Ecco il primo punto. I giovani, e non solo, sono stanchi di regimi polizieschi e oppressivi. Non sopportano più la mancanza di libertà e l’arroganza poliziesca. In questi paesi vigevano da anni “stati d’emergenza” che giustificavano l’oppressione. Per l’Egitto il motivo, all’inizio, era la minaccia sionista, in seguito la necessità di contrastare il terrorismo. Finché questi stati hanno conservato un minimo di legittimazione interna (in nome delle promesse post-coloniali) le popolazioni hanno accettato di buon grado lo “stato d’emergenza”. Con il tempo, però, l’anti-imperialismo e l’anti-sionismo si sono trasformati in vuota retorica, che le elite di potere sbandieravano a parole, nel mentre facevano patti e affari con le ex-potenze coloniali e lo stesso Israele. La politica di retorica e patti sotto banco ha trovato il suo apice da vent’anni a questa parte. Sotto la spinta del FMI le economie si sono “aperte”, le liberalizzazioni e le privatizzazioni hanno immiserito le popolazioni ma hanno ingrassato cricche e camarille abbarbicate al potere politico e da esso protette.

Il primo elemento, richiesta di libertà, non spiega, però, da solo la dimensione delle rivolte. Queste, infatti, sono avvenute e hanno conseguito successo perché si sono saldate con un secondo elemento: la componente economico-sociale. In tutto il Nord-Africa la disoccupazione ha punte elevate. Particolarmente drammatica è la situazione dei giovani che costituiscono la maggior parte della società, con livelli di scolarizzazione elevata ma opportunità di lavoro scarsissime. A ciò si aggiunge una classe operaia, numericamente significativa e con salari bassissimi, un proletariato dai lavori occasionali e redditi ancora più bassi, una massa di contadini che resistono all’espropriazione dei loro piccoli pezzi di terra. Su tutti questi la crisi si è abbattuta come la definitiva catastrofe, peggiorata, inoltre, dall’aumento dei prezzi degli alimenti a causa della speculazione finanziaria dei centri borsistici americani ed europei.

Rivolte, quindi, per il pane e per la libertà. Di masse che si sono liberate della paura della forza militare dello stato. Esigono, perciò, con determinazione la cacciata dei dittatori, ma esigono, allo stesso tempo, un sistema diverso di potere e di distribuzione delle ricchezze.

L’informazione occidentale ha messo l’accento sull’attivizzazione dei giovani internauti, frequentatori di facebook, twitter, ecc, e, dunque, appassionatisi alla libertà di opinione che i loro regimi conculcavano. In realtà, le rivolte hanno avuto, però, anche una componente proletaria, di lavoratori. Ed è stata questa la componente decisiva, sia prima di esse che nel determinarne l’esito. In Tunisia c’è stata la lunga mobilitazione (a partire dal 2008) attorno alle miniere di fosfati di Gafsa e il ruolo attivo del sindacato UGTT (Unione generale dei lavoratori tunisini), preso a strumento di organizzazione della mobilitazione anche contro le resistenze dei suoi vertici che erano legati a Ben Ali. In Egitto c’è stata la lunga mobilitazione (dal 2004) del gigantesco distretto tessile di Mahalla e le mobilitazioni crescenti di settori di lavoratori in lotta per il salario e per la libertà di organizzazione sindacale. Queste mobilitazioni hanno preparato il terreno alle rivolte di inizio 2011, e sono state decisive per il loro esito. Finché piazza Tahir era occupata da 50-100.000 giovani il problema per Mubarak era grave ma affrontabile. Quando in piazza Tahir hanno cominciato a riversarsi quotidianamente milioni di lavoratori in sciopero, l’unica opzione per Mubarak era ritirarsi a Villa Certosa… Pardon!, Sharm el Sheick.

 

Quale equilibrio si è rotto?

L’equilibrio dell’area è rotto e un’ulteriore, possibile, estensione delle rivolte può romperlo di più. Questo lo riconoscono tutti i commentatori. Ma quale equilibrio s’è rotto?

I regimi caduti erano sostenuti dall’Occidente (l’Egitto è il secondo paese, dopo Israele, per aiuti americani. In particolare riceve ogni anno aiuti per 1,5 Miliardi di dollari solo per l’esercito, al chiaro scopo di tenerlo sotto controllo ed evitare che faccia guerre ad amici degli Usa) per due motivi. Il primo: garantivano la politica di oppressione e di espansione di Israele ai danni dei palestinesi. Il secondo: tenevano la briglia alle proteste di massa. Questo secondo motivo è particolarmente importante, infatti le condizioni di miseria delle masse arabe e nord-africane sono un requisito imprescindibile per il funzionamento dell’economia capitalistica mondiale perché consentono di rubargli il petrolio a basso prezzo (da cui lucrano le compagnie petrolifere e gli stati, non certo i consumatori), espropriarli di ricchezze con il pagamento degli interessi sul debito estero, produrre manodopera da super-sfruttamento in loco e, via migrazione, in Occidente.

È, dunque, questo il duplice equilibrio che si è rotto (o rischia di subire una profonda rottura): politico/strategico ed economico/sociale.

La rottura di questo equilibrio comporta, però, un’altra pericolosa conseguenza per i poteri occidentali. Essi stanno programmando una “uscita dalla crisi” fondata su due capisaldi:

  1. ulteriore incremento del prelievo finanziario sugli stati (crisi del debito sovrano) e su tutte le attività vitali (finanziarizzazione della vita anche dei lavoratori, costretti dai bassi salari a impegnare la vita futura prendendo a prestito, privatizzazioni dei beni comuni, ecc.);
  2. incremento dello sfruttamento del lavoro. In Italia, come si sa, abbiamo dei campioni di questa tesi (Sacconi, Brunetta, Marchionne, Ichino, Veltroni, ecc.) che invitano, con le buone o con le spicce, i lavoratori a rinunciare alle libertà sindacali e a difendere condizioni di lavoro e vita e, anzi, a ringraziare i padroni che generosamente gli offrono la possibilità di lavorare, che, da parte loro, sono umilmente impegnati ad aumentare il proprio prelievo sulla ricchezza prodotta.

Le rivolte minacciano di mettere fortemente a rischio entrambi i capisaldi, perché per perseguire i propri obiettivi potrebbero esigere il rifiuto del pagamento del debito estero e condizioni salariali e di lavoro che svuoterebbero il giochino ricattatorio dei Marchionne & C.

Le rivolte in Nord-Africa e nei paesi arabi parlano, dunque, a tutti coloro che in Occidente si oppongono alla perdita dei diritti sindacali e politici, alla trasformazione dei lavoratori in servi, alla trasformazione delle donne in merce per il godimento di ricchi bavosi, al sequestro di potere da parte di cricche e lobby, alla distruzione di territorio e vita (con inceneritori, TAV, discariche, centrali nucleari), al furto di futuro ai danni dei giovani, alla privatizzazione dei beni comuni. Esse dicono che contro queste politiche è possibile dar vita a un movimento internazionale di resistenza e opposizione. Per questo è necessario difenderle, solidarizzare attivamente con loro e cercare di contribuire alla loro prosecuzione ed estensione.

Nell’ultimo mese si sono fatti avanti, però, dei singolari difensori dei moti per la democrazia in Nord-Africa. Questi (due su tutti: Obama e Napolitano) hanno detto al mondo che per difendere quei moti bisognava intervenire in armi in Libia.

È davvero questo un modo per difenderle, o non è, piuttosto, un modo per affossarle? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo, naturalmente, porcene un’altra: cosa sta succedendo in Libia?

Cosa succede in Libia?

Cose analoghe a quelle di Tunisia ed Egitto?

Tra tali paesi ci sono, anzitutto, alcune importanti differenze. Petrolio e gas: in Libia cospicuo, altrove poco (il gas egiziano è quasi tutto venduto a Israele a prezzi di favore) o nulla. Popolazione (Egitto, 76 milioni, Tunisia 10,5 milioni, Libia, 6,5 milioni). PIL pro capite (Egitto 6.000$, Tunisia 8.000$, Libia 14.000$). La sostanza di queste differenze è che la Libia con la scarsa popolazione rapportata alle ingenti risorse di idrocarburi gode di una rendita petrolifera enorme. Una situazione che, sul piano economico-sociale, non la avvicina a Tunisia ed Egitto, ma piuttosto a Bahrein, Qatar, Kuwait, Arabia Saudita. E, infatti, similmente a questi ultimi paesi impiega in modo massiccio, per i lavori manuali e in molti servizi, lavoratori immigrati (1,5-2 milioni su una popolazione di 6,5 milioni. Roba che Maroni gli avrebbe scatenato contro una guerra civile!). Grazie all’uso della rendita petrolifera, in Libia c’è un sistema di welfare state che altrove manca (e che, forse, anche da qui si potrebbe invidiare) e che, in parte significativa, coinvolge anche gli immigrati (quelli che lavorano, non quelli rinchiusi nei lager costruiti in ottemperanza ai desideri di Berlusconi, ma già in via di preparazione con Prodi-D’Alema).

Queste differenze spiegano in modo del tutto comprensibile perché le piazze di Tripoli (e delle altre città, con l’eccezione di Bengasi) non si siano mai riempite come quelle de Il Cairo e Tunisi e consentono di comprendere come contro Gheddafi non si sia sviluppata la rivolta di massa che c’è stata contro Mubarak e Ben Ali, al contrario di quanto ha cercato di far credere una martellante campagna mediatica. Contro di lui si sono mobilitati all’inizio alcuni giovani desiderosi, come in Egitto e Tunisia, di godere di una maggiore libertà d’opinione, ma, a differenza degli altri due paesi, a questi giovani non si sono aggregati dei lavoratori, ma la loro protesta è stata appropriata e immediatamente scalzata da quella di alcune tribù (in particolare della Cirenaica) e da esponenti dello stato gheddafiano passati con gli insorti. La quantità di questi era così ridotta che la questione stava per essere sedata senza eccessivi problemi, e lo sarebbe sicuramente stata se non fossero intervenute le bombe con il marchio “Human Rights”, precipitosamente confezionate dall’Onu.

Dobbiamo per questo concludere: allora difendiamo Gheddafi? La risposta richiede un approfondimento.

Esaminiamo il punto di vista di chi, libico o no, trae un bilancio della “rivoluzione verde”. Questa era nata, dall’“alto”, contro re Idriss, fantoccio inglese che passava le sue giornate a via Veneto a Roma, e contro il colonialismo italiano e inglese, ma aveva trovato un partecipato consenso di massa quando nazionalizzò il petrolio e ne impiegò la rendita per il welfare state. La rivoluzione si riprometteva di fare della Libia un moderno paese capitalista, con industrie, agricoltura moderna e relative classi, borghesi e proletari. Questo obiettivo è fallito, per una combinazione di motivi.

Anzitutto la distribuzione della rendita non invoglia granché al lavoro (i lavori manuali sono, infatti, di gran lunga riservati agli immigrati). Secondariamente è ben difficile costruire industrie e agricoltura moderna quando le potenze occidentali inondano i mercati con i loro prodotti industriali a basso costo e i prodotti agricoli sovvenzionati. A queste condizioni investire capitali in loco non ha gran senso e, infatti, Gheddafi ha dirottato in Occidente parte significativa dei capitali statali, non certo a comandare, ma per incassare qualche dividendo. Nel contempo, dismessa l’aurea di rivoluzionario, ha cercato di conquistare un posto nella “comunità internazionale”. Questa, per accettarlo, gli ha imposto di trasformare la Libia in ante-murale della jihad islamica e dell’“invasione dei migranti”, incarichi che Gheddafi ha diligentemente eseguito. In questa involuzione del processo rivoluzionario Gheddafi ha messo in atto una repressione del dissenso e della libertà d’espressione (tuttavia, ben lontani dai genocidi che gli imputano).

Il popolo libico, e gli immigrati in Libia (tutti, quelli che lavorano e quelli che sono imprigionati nei lager prodiani-berlusconiani), avrebbero, insomma, tutto il diritto di cacciarlo via per mettere in atto gli obiettivi traditi della rivoluzione e politiche di maggiore indipendenza dallo sfruttamento imperialistico. È questo l’obiettivo che muove gli “insorti” e le armate occidentali che ne stanno realizzando i desideri?

Gli insorti di Bengasi hanno già dichiarato la volontà di rispettare gli accordi anti-immigrati e scatenato pogrom contro di loro, bollandoli come “mercenari di Gheddafi”. Anche gli sponsor occidentali, mentre litigano sulla spartizione del bottino, hanno intendimenti del tutto chiari. Il primo obiettivo è prendersi il petrolio libico. Come mai?, si dirà, il petrolio i libici ce lo vendono già. Il problema è, però, come spiega Margherita Paolini (esperta di questioni petrolifere di Limes) nell’intervista a il manifesto del 24.3.11, è il prezzo al quale lo vendono e le condizioni troppo limitative che pongono alla libertà delle compagnie occidentali. Gheddafi pone condizioni troppo dure. Per alimentare i suoi conti esteri o per finanziare il welfare libico? Conoscendo l’amore di Obama, Berlusconi, Sarkozy, Cameron per il welfare state la risposta dovrebbe essere piuttosto facile. Alberto Quadrio Curzio sul Corriere della Sera del 20.3.11 rivela, poi, un altro proposito umanitario: sequestriamo i fondi esteri dello stato libico ed utilizziamoli per programmi UE di aiuto ai paesi del Nord-Africa. In ambienti giudiziari questa si chiamerebbe: rapina a mano armata.

Quello degli “insorti” e dei loro sponsor è, insomma, un obiettivo diametralmente opposto al primo: non portare avanti la rivoluzione tradita, ma distruggere anche ciò che la rivoluzione ha realizzato.

La guerra in atto, dunque, dietro alle dichiarazioni umanitarie e democratiche cela i suoi veri obiettivi: prendersi il petrolio della Libia a gratis come in Iraq, insidiare la creazione di una rete di commerci indipendente dagli Usa-Europa (incentrata su Cina, India, Russia, Brasile) e, soprattutto, posizionare in Nord-Africa un fenomenale presidio politico-militare contro la possibilità che le rivolte si estendano e mettano ulteriormente in questione l’ordine mondiale capitalistico.

A questi si aggiunge un altro allettante motivo. Se questa operazione riuscisse in Libia, sarà molto più facile ripeterla in Venezuela, Bolivia, Cuba, Iran (e, perché no?, Cina, via Tibet). In tutti questi paesi non ci sono certo poteri che fanno gli esclusivi interessi dei popoli locali, fanno, anzi, già affari con le economie dominanti, ma continuano, non di meno, a porre ostacoli alla piena libertà dei capitali occidentali di muoversi impunemente sui loro territori. Ovunque sarà facile trovare 2-3.000 “insorti” in armi che invochino le bombe “HR”.

Probabilmente riusciranno a conquistare la Libia, cent’anni dopo la prima conquista italiana. Ma i tremendi problemi che hanno avanti lavoratori, giovani, donne dell’area e la determinazione che hanno mostrato nel cacciare Mubarak e Ben Ali fanno ben sperare che la conquista non fermerà il processo di insurrezione iniziato.

 

Cosa fare qui?

In estrema sintesi. Opporsi all’intervento colonialista/ imperialista. Lottare per l’autodeterminazione dei libici e di tutti i popoli oppressi e quindi contro ogni ingerenza, armata, diplomatica, di sanzioni, ecc. disposta o no dall’Onu.

Opporsi all’uso della crisi per spogliare lavoratori e popoli oppressi. Lavorare a intrecciare tra di loro un rapporto di lotta internazionale contro tutti i ricatti alla Marchionne & C.

Promuovere la partecipazione alle iniziative di mobilitazione già programmate e a quelle che si stanno proponendo (manifestazione nazionale a Napoli il 16 aprile, www.stopwar.altervista.org) e con un lavoro continuo anche a fianco degli immigrati, quelli che aspirano a migrare e quelli che sono già migrati, entrambi colpiti dalla discriminazione razzista dello stato. [Nicola Casale per ecoinformazioni]

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