Dietro la porta

Mostra pittorica di Giuliano Collina alla Casa Brenna – Tosatto in via Mattia del Riccio 3 a Lenno fino a domenica 16 ottobre. Apertura da martedì a domenica dalla 10 alle 19. Per informazioni tel. 0344.55463, e-mail Info@casabrennatosatto.it, Internet www.casabrennatosatto.it

 La presentazione di Albetto Longatti

«“Io vedevo quell’evangelica porta stretta attraverso la quale occorreva sforzarsi di entrare. Me la rappresentavo, immerso nelle fantasticherie, come una specie di cunicolo nel quale mi introducevo con fatica, con dolore, ma pregustando anche la felicità del cielo” André Gide (La porta stretta, 1909)

Di porte è costellata la produzione pittorica di Giuliano Collina, un anno dopo l’altro. Porte dove s’insinuano sagome di persone, porte aperte e chiuse, viste di fronte o di sbieco, buchi dove si addensano le ombre o semplici ritagli di una materia spessa come il cemento… Anche qui, in questa mostra di tecniche miste (pittura, anch’esse, non meri schizzi disegnati) ce ne sono almeno quattro, con una variante: la porta è collocata in alto per chi guarda. Bisogna raggiungerla, forse arrampicandosi su una parete, non ci sono gradini per agevolare la salita. E’ una porta dall’accesso difficile. E non si sa cosa nasconde dietro i battenti. Forse il vuoto. Di massima, l’artista ha ritratto, a modo suo, ciò che sta “al di qua” della porta: cose e esseri umani con i quali chiunque può avere avuto contatto, o quantomeno conoscenza, in un ambito ristretto. In apparenza, però.

L’artista ha sempre affermato, quando lo intervistano, che quando dipinge ha in testa un progetto preciso ma non sa fino a che punto riuscirà a renderlo tangibile, abbandonandosi interamente all’atto di far scaturire da pennelli, spatole e matite almeno un riflesso della realtà. La “sua” realtà, affidata all’estro pittorico, non quella che gli sta di fronte. Ora, la pittura è tale quando non tradisce se stessa. E non è possibile – lui lo sa bene – che oggetti, situazioni, luoghi adombrati sulla tela o sulla carta, man mano che gli strumenti espressivi procedono nella loro azione, siano soltanto immagini ripetitive del quotidiano. Altrimenti non sceglierebbe proprio quei momenti descrittivi, non agirebbe con distorsioni prospettiche, brusche interruzioni lineari o accentuazioni volumetriche per raggiungere effetti di spiazzamento, di spostamento di posizione. Certo, “la rosa è la rosa è la rosa”, parafrasando Gertrude Stein, non è altro se appare ben riconoscibile. Ma se è lì, non sarà per caso.

In questo senso l’evocazione della porta è la spia che esiste una chiave diversa di lettura delle motivazioni che assillano periodicamente l’autore. Diversa dal rispecchiamento, che lui è solito produrre, di una realtà accostata e filtrata, deformandone le fattezze fino a riempire tutto lo spazio della rappresentazione. È il caso, ad esempio, delle stoviglie domestiche costantemente evocate per farle uscire da un microcosmo domestico, ingrandendole al punto da trasformarle in una sorta di reperti archeologici, calcificati in un deserto morbidamente esteso. Il preteso panorama esistenziale di Collina, quel suo finto autobiografismo, l’ossessivo aggirarsi fra le pareti di casa individuando inedite angolazioni, non è un rinchiudersi minimalista ma un allargarsi, un impossessarsi dei soggetti a portata di mano per farli diventare pura materia pittorica, indefinita produzione di fantasmi visivi che attraverso una fitta ragnatela di chiaroscuri acquisiscono una plasticità tridimensionale. Non più oggetti reali, ma una proiezione sovradimensionata di nature morte, spogliate della loro impronta vitale. Come ha scritto uno dei più penetranti commentatori dell’opera di Collina, Claudio Guarda, “non gli basta più solo avvicinarli… focalizzarli da vicino”, “li incalza da presso nel tentativo di costringerli, finalmente, di afferrarli”.

L’artista lariano, come è noto, si esprime abitualmente per cicli, ognuno dei quali saggia senza esaurirla una particolare tematica e può, a distanza di tempo, ritornarvi sopra. Ma è indubbio che una prima fase di realizzazioni ha puntato su figurazioni paesistiche o umane di vasto respiro che riflettevano la sperimentazione cultural-social-linguistica di fine Novecento, mentre in una seconda fase ha preferito personificare gli oggetti e restringere il campo visivo. “Incalzandoli da presso”, come dice Guarda. Attribuendo anche una valenza superiore al loro status e quindi, conferendogli un’ambiguità di significato che li trasferisce ad un livello diverso di percezione. Non per fomentare un’illusione, una fuga romantica dalla realtà. Ma certo questi microcosmi di realtà scrutati da vicino si accettano, si fanno propri in un modo inusitato, con la sensazione che si tratta comunque di iperboli con una oscillazione interna di senso, un “allucinato straniamento” di forma (lo addita Sanesi, altro acuto commentatore del privato colliniano) tale da renderli enigmatici.

È proprio qui che torna utile riprendere il ragionamento sulle porte. Che segnano il passaggio di senso fra i due piani dell’invenzione estetica, quello alla luce del sole e l’altro nascosto, segreto, come una pianta che si alza dalle radici, definito da Collina “Il mestiere del pittore”. Mestiere di un giardinaggio da laboratorio, coltivato nel silenzio, nel quale si trasferiscono strutture compositive da un modello o, più spesso, da una suggestione scaturita da un’idea, una citazione, un’illustrazione libresca, la pagina di un catalogo, su una tavola, un drappo, un foglio. Lo stimolo, l’occasione producono effetti diversi, di concentrazione o di dilatazione se il soggetto è un evento della natura, di cui catturare l’effetto sensoriale più che il prodotto dello sguardo (la pioggia, il fuoco, le stelle), piuttosto che gli oggetti minimali di cui si diceva, presi dall’intorno domestico. Ma per dar loro una giustificazione che non si affidi soltanto al piacere di dipingerli, ad un istinto che nell’autore non è mai disgiunto da un intervento raziocinante, da una logica sedimentazione di pensiero, scatta l’altra dimensione rappresentativa: quello che Collina, mascherandolo sotto il pretesto mercantile del “mestiere”, intende per arte. Attraversando la soglia della metaforica “porta” che ha fornito lo spunto della nostra lettura. L’arte, dunque, è una nobilitazione del “mestiere”, un superamento della tecnica. Il pittore non è un artigiano che inserisce nel mondo cose che appartengono al mondo, ma è, o vorrebbe essere, il sacerdote di un rito che tende a produrre un mondo parallelo.

Non ho usato a caso il termine di “sacerdote”, pur sapendo benissimo che in questo caso non è in discussione il criterio di assoluta laicità con il quale viene affrontato il compito di dedicarsi all’arte. Sacerdozio è infatti da intendere come l’officiatura, la disposizione di un valore aggiunto, non direttamente calcolabile: un valore preso da una matrice spirituale. E’ su questo proposito che si fonda la ricerca di Collina sull’arte di derivazione religiosa. Che non fa parte dell’arte “sacra” nel senso proprio di invito devozionale. Lui la chiama “sacrale” e non coglie esattamente lo scopo per il quale la mette in campo, che è in verità il richiamo ai soggetti ed alle tematiche dell’arte dedicata al sacro della grande tradizione pittorica internazionale, soprattutto italiana, dal Medioevo al Rinascimento, al Barocco e oltre. Temi e soggetti vengono ripresi in quanto offrono situazioni tali da poter essere utilizzati, strumentalmente, come alti presupposti pittorici, svestiti –  con qualche residuo di rispettosa cautela – della loro intrinseca “sacralità” d’origine o per meglio dire della loro provenienza dai testi biblici. L’approccio non appare dissimile da quello adottato nei confronti di soggetti ben più umili, raccolti dal quotidiano. Li unisce una comune considerazione sul destino umano, terreno, con un inizio e una fine certa. Così l’immagine della Sindone è solo una sagoma scura, la Crocifissione è un “d’après” da un’iconografia storica in cui ciò che conta è l’insieme compositivo, il gioco di linee, nella decollazione del Battista l’indugio è sul disequilibrio della testa che cade, la Deposizione è un corpo che stramazza od è bocconi con tutto il suo peso, gli angeli han ben poco di angelico nel loro svolazzare di creature mostruose, mezze umane mezze animalesche. E quando la scelta cade, con maggior frequenza di altri soggetti della tendenza pseudosacrale, sull’”istituzione dell’Eucarestia”, in scena non compaiono mai né Cristo né gli Apostoli ma solo l’apparecchiatura dell’Ultima Cena, un tavolo che somiglia a un tavolo qualsiasi, un piatto, un calice, un pezzo di pane. Né va dimenticata la visione fantasticata e pure così concreta, tastabile, del Purgatorio, dove il sangue della pena da scontare dai penitenti zampilla sotto l’ingombro di un candido masso nevoso. Che dire, infine, delle tovaglie a scacchi, coloratissime, distese su deschi famigliari? Sono tovaglie o festosi sudari, coprono davvero tavoli oppure involucri per l’ultimo viaggio nel mistero, infiocchettati da parenti e amici? E non è forse da queste variazioni di senso che traspare l’occulto disagio, l’attesa senza speranza di un Altrove, la febbre dell’assenza di stabilità, lo smarrimento della solitudine sotto tante visioni di un labirinto senza tempo?

Il cerchio della ricognizione sull’opera di Giuliano Collina si chiude su questi inquietanti interrogativi, che sono poi comuni ai dubbi e ai timori di tutti, sull’Essere e il Nulla. L’invoca anche Emanuele Severino nella sua recente autobiografia, la necessità di questo ritorno a un cruciale, sofferto dilemma eternamente irrisolto,  riallacciandosi al titolo di un vecchio scritto sartriano, maturato non a caso lontano dalle consuete elucubrazioni filosofiche della teoria esistenzialista, nelle tenebre di un campo di sterminio nazista».

La cassa nel mio studio di Giuliano Collina (presentazione mostra disegni Casa Brenna-Tosatto)

«Cinquanta carte, alcune piccole, altre piuttosto grandi, quattro grandissime. Qualcuna solo disegnata: a carboncino, a penna e inchiostro di china, a matita, a matita e gomma (che non è la stessa cosa), altre un po’ a colori (a tempera, ad acquerello o con gli smalti industriali), altre ancora dipinte del tutto come su tela. Infine c’è anche qualche “tecnica mista”, nata dalla commistione, dalla mescolanza di un po’ di tutto, materiali della pittura tradizionale e non solo.

Due Teste, due impronte del volto di Cristo sono state realizzate con la terra del mio giardino mescolata a un po’ di colla e nient’altro. Allora, quando cercavo quella forma, non volevo né il colore né la materia del sangue, mi sembrava melodrammatico così come ogni tentativo con il colore della pittura finiva per essere illustrativo. Provai quindi con qualcuna di quelle sostanze, magari non usuali, ma che hanno una consistenza e un colore precisi e predeterminati: la cenere, la sabbia, il catrame erano ormai già troppo usati, la terra non ancora. Terra come il colore e la natura del mondo, come il fango che sta all’origine dei nostri corpi.

Cinquanta carte realizzate secondo tecniche diverse, proprie e improprie. Impossibile identificarle tutte con il termine “disegno”, perché solo poche mostrano la traccia del segno e pochissime sono in bianco e nero. Oggi anche le più elementari distinzioni, anche gli specifici primari hanno perso significato, nemmeno più è possibile decidere se si tratta di pittura o scultura, né tanto meno distinguere il disegno dall’opera dipinta. Le tecniche nel nostro contemporaneo si sono inestricabilmente arruffate, i materiali e gli strumenti si sono moltiplicati; forse è solo possibile un’unica distinzione, quella relativa al supporto: la carta o la tela. Sembra strano, ma la carta o la tela offrono due condizioni operative assolutamente diverse. Quando si lavora sulla carta, ci si sente più liberi, più disinvolti, la carta offre più possibilità della tela, è molto meno ingombrante, è facile da stivare e di gran lunga meno costosa. Nel nostro tempo la carta si può sprecare, ne abbiamo a iosa intorno a noi: di tante tipologie, di tante grammature e di tanti formati, non è soltanto bianca, ma anche colorata di tanti colori e, soprattutto, ha una straordinaria duttilità, perché può essere facilmente strappata, tagliata e rincollata. Su un foglio di carta ci si può lavorare per un po’ e poi se ne può eliminare una parte, lo si può dividere in pezzi e da questi far nascere nuove immagini. Insomma la carta si può maltrattare senza rimpianti, anzi senza rimpianti la si può anche, in un liberatorio gesto di impotenza, accartocciare e gettare via.

Quando il supporto è di carta, non ho bisogno di cavalletti, di tela e di telai, sto su un angolo del tavolo e lavoro in orizzontale. No, in realtà, non è più facile sulla carta piuttosto che sulla tela, in entrambi i casi, almeno per me, è sempre complicato, ma quando pasticcio sui fogli, mi sento più a mio agio, anche perché, se dipingo su tela, ci insisto sopra fino all’esasperazione: il quadro deve riuscire, oppure non ha altro destino che la sua completa distruzione, mentre per le immagini su carta mi sono inventato una scappatoia, qualcosa di simile a una specie di limbo. Nel mio studio, da anni, anzi da decenni, conservo una grande cassa di legno che contiene gli avanzi dei miei lavori su carta, quelli non del tutto riusciti, quelli per così dire indegni, per ragioni opposte, tanto delle pareti dei collezionisti quanto della spazzatura. Lì, loro stanno al buio, un po’ dimenticati, mai ci ho rovistato dentro quella cassa, non ricordo quasi più nulla di quello che contiene, un po’ ne ho timore, ma so che quel luogo quasi segreto è pieno di pezzetti di me, dei miei desideri, le tracce di quanto avrei voluto realizzare.

Cinquanta fogli scelti da me e dall’amico Longatti alla ricerca di una cronologia, un percorso che parte da due Tovaglie del 1986 e si conclude con un’altra Tovaglia del 2011. Un gruppo di opere finite nel bene e… nel male, non certo come i frammenti della cassa segreta».

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