Mostre/ Fotografia svizzera dell’Ottocento a Lugano

Fino al 3 luglio è possibile visitare al LAC di Lugano l’esposizione Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo e dedicata – come si capisce facilmente – alle origini della diffusione dell’espressione fotografica nel territorio elvetico, anche in quello più prossimo al confine italiano, ed è quindi un’occasione propizia per verificare similitudini e differenze tra i territori, anche in continuità con altre occasioni espositive di cui abbiamo parlato recentemente.

Bisogna, però, preliminarmente, delineare bene l’ambito, a scanso di equivoci ed errori: percorrere la “storia fotografica” di un’intera nazione, per quanto piccola e vicina, comunque dotata di un’articolata cultura visiva e di propri centri di elaborazione, è cosa ben diversa che indagare gli esiti di un movimento generale, com’è la diffusione della fotografia, su un territorio provinciale, com’è quello comasco.

E infatti quella di Lugano (esposta anche in momenti diversi a Lausanne e Winterthur) è una mostra assai ampia, frutto di una ricerca a 360° su un territorio vasto, in cui le problematiche territoriali sono necessariamente costrette a stemperarsi, anche se vengono tenute costantemente presenti. In questo contesto, alcune prospettive di indagine vengono particolarmente valorizzate, a partire – e non potrebbe essere diversamente – da quelle che concernono i momenti “primari” dello sviluppo della nuova tecnica fotografica.

John Ruskin e Frederick Crawley, Castelgrande a Bellinzona, 1858 ca, dagherrotipo

In effetti, per esempio, la selezione presentata di dagherrotipi è impressionante, e annovera non solo i classici ritratti “a mezza figura”, ma anche ritratti di gruppo in interno e in esterno (alcuni di questo secondo tipo sono veramente straordinari) e soprattutto vedute urbane, rurali e paesaggistiche di grandissima bellezza. La questione del dagherrotipo è complessa: a questa tecnica risale l’annuncio della “nascita” della fotografia a Parigi nel 1839, ciononostante essa non presenta le caratteristiche costitutive della fotografia; non è basata sulla coppia negativo-positivo e non è riproducibile in più copie. Non sembrino queste considerazioni troppo “filosofiche” (che rischiano di apparire campate per aria, soprattutto dopo che l’avvento, anzi l’affermazione totalitaria, delle immagini digitali ha sostanzialmente rimosso tutte le “preoccupazioni” metodologiche: primum photographare, deinde philosofari!), quando – come a Lugano – si ha l’occasione di ammirare decine di esempi, è essenziale aver chiaro che cosa si guarda. Un dagherrotipo (cioè un “pezzo unico”) è cosa ben diversa da altre “fotografie” (carte salate, stampe al carbone, o all’albumina ecc.) derivate da un negativo e quindi – almeno in teoria – ristampabili e migliorabili.

Adolphe Braun. Lugano, 1860-1870 ca, stampa al carbone

Tra gli elementi di grande interesse dell’esposizione luganese c’è anche quello di presentare non solo di opere di autori elvetici, ma anche di tanti “itineranti” (ambulanti o turisti); ci sono così alcuni dagherrotipi eseguiti da John Ruskin, il grande autore e teorico inglese autore delle Pietre di Venezia. Questo pezzo di storia è sicuramente condiviso dal territorio lariano, e ci si deve necessariamente chiedere che percorso abbiano seguiti questi turisti “evoluti” e dotati di macchine per la fotografia e – quindi – dove siano fine le eventuali prove realizzate in territorio lariano. Per esempio, uno dei dagherrotipisti itineranti citati per la Svizzera, Trutpert (o Truert) Schneider, è documentato di passaggio a Como negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Purtroppo, il patrimonio visivo relativo ai dagherrotipi “comaschi” è ridotto all’osso: non più di una manciata di ritratti e nessuna veduta urbana o di paesaggio! La mostra di Lugano è sicuramente un forte stimolo a moltiplicare gli sforzi di ricerca.

Altrettanto stimolanti sono le altre sezioni della mostra, che coprono la storia fino alla fine del secolo XIX secolo: un po’ suddivise per ambiti geografici e linguistici (fanno la parte del leone – bisogna sottolinearlo – le aree tedescofone e francofone, mentre le zone di lingua italiana e ladina sono un po’ marginalizzate), e un po’ per ambiti tematici con interessanti affondi sull’elaborazione di una “identità nazionale” visuale, sull’espressione artistica, sulla promozione del progresso (ma non mancano opere di fotografi elvetici realizzate in giro per il mondo, con alcuni singolari esempi di fotografie “orientaliste”…) . Ovviamente, l’elemento fondamentale resta quello della “diffusione dell’immagine” con inevitabili connessioni con lo sviluppo del turismo. E in quest’ambito, al di là di qualsiasi considerazione metodologico o storico, alcune fotografie emergono in tutta la loro potenza espressiva. Si aggiunga poi che in qualche caso (grazie al fatto di poter lavorare su una “base dati” nazionale) si è riusciti ad affiancare gli originali fotografici alla loro trascrizione con altri mezzi di stampa.

Una veduta dell’allestimento

In conclusione, un’esposizione di notevole ricchezza documentaria e di grande capacità evocativa. Spiace che l’ottimo catalogo, curato – come la mostra – da Martin Gasser e Sylvie Henguely con la collaborazione di Peter Pfrunder, sia edito solo in francese e in tedesco; trattandosi di oltre 400 pagine, lo sforzo di lettura non è da poco (qualcuno dirà che ci si può accontentare delle figure…). [Fabio Cani, ecoinformazioni]

L’immagine scelta come “copertina” della mostra: Richard Traugott, Costume bernese, 1883 ca, albumina

Dal Vero. Fotografia svizzera del XIX secolo

Masi Lac, piazza Bernardino Luini 6, Lugano

fino al 3 luglio 2022

Orari: martedì, mercoledì, venerdì 11-18; giovedì 11-20; sabato, domenica, festivi 11-20; lunedì chiuso.

Ingresso (per tutto il complesso del Lac): intero 20 CHF; ridotto 16 CHF.

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