Thierno Ngaye

Consiglio informale, democrazia reale

Dopo il presidio di piazza XX settembre lunedì primo marzo, i numerosi Italiani e gli ancor più numerosi cittadini stranieri si sono recati al vicino Comune di Cantù dove il comitato Primomarzo 2010 aveva invitato il sindaco della città e tutti i consiglieri comunali ad un confronto sui temi dell’integrazione.

Sulle poltrone dei consiglieri comunali sedevano Roberto Bruno, Claudio Bizzozzero Francesco Pavesi, Ivano Pellizzoni, Aldo Stoppani di Lavori in corso e Gigi Tagliabue del  Pd.
Dopo un lungo saluto al pubblico che gremiva la vasta sala consigliare di Cantù (pubblico composto per il 90 per cento da cittadini stranieri) Bizzozzero ha lasciato il microfono a diversi consiglieri del suo gruppo consigliare e a Gigi Tagliabue.
I messaggi di benvenuto di quasi tutti i consiglieri intervenuti miravano a chiedere ai numerosissimi immigrati presenti quali fossero le loro istanze da rivolgere al consiglio comunale: «Siamo qui per ascoltarvi».
Thierno Ghaye, dell’associazione 3 febbraio ha detto tra l’altro: «Se tutti i consiglieri comunali di Cantù fossero come voi potremmo sentirci a posto». Diongue Mbay della stessa associazione, ha aggiunto: «Immaginiamo un prossimo futuro quando qualcuno dei nostri figli siederà davvero su queste poltrone da consigliere comunale di Cantù, per ora limitiamoci ad occupare simbolicamente, per una sera, tutte le poltrone».
Dopo che quasi tutte le 30 poltrone dei consiglieri sono state occupate da cittadini stranieri è intervenuta la senegalese Isilda Virginia Aemando: «Oggi in Francia ed in altri paesi i cittadine stranieri hanno davvero scioperato in gran numero, questo è servito alle nostre organizzazioni a misurare quanto il lavoro straniero può incidere sulle economie di questi  paesi. In Italia oltre all’emergenza della crisi economica c’è un’emergenza ancor più grave che è quella morale, noi lavoratori stranieri non produciamo solo ricchezza economica per l’Italia, ma contribuiamo a salvare il paese da una deriva morale, in cui, in  alcune forze politiche di governo militano dei veri e propri “piromani sociali” che infiammano le braci per fomentare la paura… I miei bisnonni in Africa sono stati gli ultimi schiavi, arrivando in Italia non immaginavo di vedere tanti miei compaesani ritornare schiavi». In altri interventi gli immigrati hanno chiesto ai consiglieri presenti che venga abolito il numero verde di denuncia anonima dei clandestini e di avere “spazi d’intervento in consiglio comunale”. [Enzo Arighi, ecoinformazioni]

Domenica 7 febbraio alla Cgil a Como per i diritti dei migranti

Il 1 marzo in tutta Italia i lavoratori migranti scenderanno in piazza per il loro primo sciopero nazionale. A Como, il prossimo 7 febbraio assemblea alla Camera del Lavoro per ragionare e discutere di migranti, “integrazione” e razzismo. Abbiamo chiesto a Thierno Ngaye dell’associazione 3 Febbraio e a Ardjan Pacrami del Clas della Cgil di fare il punto della situazione su questi temi.

Como e i migranti: come vivono in città gli “stranieri”? Abbiamo girato l’interrogativo a due esponenti della società civile, il rappresentante di un’associazione che si occupa di diritti dei cittadini migranti e un sindacalista che si occupa del Coordinamento lavoratori stranieri della Cgil lariana. Per Thierno Ngaye dell’associazione 3 Febbraio, a Como «il livello di razzismo è alto, è molto sentito dagli immigrati, nonostante venga sistematicamente negato dai cittadini comaschi. La realtà è che si fa di tutta l’erba un fascio, anche i più integrati, persone che vivono in città da anni, si sentono sempre discriminati dai media e dai politici, si sentono considerati come non parte di questa società. E questo porta a non avere voglia di sentirsi cittadini, di sentirsi parte attiva della comunità: in questo siamo ancora molto indietro. Penso al caso di un immigrato sposato con un’italiana, con figli grandi nati qui: mi ha detto di sentirsi sempre come se fosse arrivato ieri in questo Paese».
Per Ardjan Pacrami, responsabile del Clas (Coordinamento lavoratori stranieri) della Cgil di Como, «L’immigrazione è lo specchio della nostra società, delle nostre città»; il modo in cui accogliamo l’altro ci dice come sta la nostra democrazia, il “nostro” mondo. E Como «è una città ospitale. Purché gli immigrati non diano fastidio e stiano “da parte”. Perché un centro come quello di Tavernola non diventa una struttura aperta a tutti? Non abbiamo bisogno di ghetti ma di centri aperti, non serve solo stabilire i luoghi in cui i migranti possono abitare ma sono necessarie soprattutto politiche sociali e culturali di ampio respiro».
Sullo sciopero del 1 marzo le opinioni divergono. Il rappresentante dell’associazione antirazzista ha qualche dubbio: «Abbiamo sempre voluto fare uno sciopero, è da tre anni che se ne parla, ma siamo un po’ preoccupati per il momento scelto e per l’organizzazione di questa mobilitazione. Bisognava coinvolgere di più le associazioni, la società civile, sarebbe stato meglio avviare un percorso più lungo e partecipato che portasse alla manifestazione. Rischiamo di non raggiungere l’obiettivo prefissato: tanti lavoratori migranti sono disoccupati, molti non parteciperanno perché la crisi colpisce duramente gli stranieri, per questo mi preoccupa il possibile fallimento dello sciopero. Come associazione, per tanto, fino ad ora non abbiamo dato la nostra adesione all’iniziativa del 1 marzo».
Ardjan Pacrami vede invece nel primo sciopero nazionale dei migranti «un motivo d’orgoglio, perché è un modo dei lavoratori stranieri per rendersi visibili, per dire che ci sono. Ma è importante ricordare che non esistono divisioni nel mondo del lavoro: noi non diciamo “lavoratori immigrati di tutto il mondo unitevi”, quanto piuttosto “lavoratori di tutto il mondo unitevi, a prescindere dal colore della pelle”. La Cgil si è battuta e si batterà contro questo sistema di cose, contro gli atteggiamenti razzisti legalizzati. I fatti di Rosarno ci hanno insegnato che se le persone vengono lasciate sole, le loro iniziative possono sfociare in azioni sbagliate: noi non lasceremo mai da soli i cittadini, i lavoratori, nessuno. Ben vengano dunque iniziative che coinvolgano il maggior numero possibile di persone e di realtà. Qualsiasi evento creato non per mettere gli uni contro gli altri bensì per unirci è più che positivo».
Un percorso partecipato, dal basso, comincerà invece a Como il 7 febbraio prossimo, con l’assemblea alla Camera del Lavoro: «abbiamo già alcune idee – dichiara Thierno Ngaye – ma vogliamo condividerle e discuterle con tutte le persone che parteciperanno all’incontro: pensiamo ad una manifestazione comasca o a un presidio, ma ci sarà da parlare anche del 1 marzo. È tutto da discutere, sarà un’occasione di confronto e dibattito importante».
«A livello nazionale – continua il referente del Clas Cgil – tentano di costruire cittadini di serie A e di serie B: ma questo non giova a nessuno, tanto meno al cittadino “comasco”! Le politiche locali vanno contro l’integrazione: basti pensare alle tante ordinanze razziste nei Comuni del Nord, non da ultimi Cantù, con il numero verde per segnalare i clandestini, o Turate, con l’istituzione dell’ufficio per denunciarli… Il decreto flussi, la regolarizzazione di una sola categoria professionale (mentre abbiamo migliaia di colf e badanti che svolgono in realtà altri lavori), il tetto ai bambini stranieri nelle classi: è questa l’integrazione?».
Quanto alla collaborazione tra i diversi sindacati, «si deve e si può fare di più insieme». Per arrivare a proposte concrete, come «la richiesta a prefetto e questore, a tutte le istituzioni locali competenti, di valutare caso per caso, in questo periodo di crisi, prima di procedere alla chiusura di ogni fascicolo che riguarda un lavoratore migrante disoccupato da sei mesi, il periodo oltre il quale scade il permesso di soggiorno».
Perché dietro a quei fascicoli ci sono delle storie, delle vite, delle persone. «Come un cittadino italiano, residente a Cantù, originario del Ghana: si è rivolto recentemente ai nostri sportelli perché gli è stato negato il diritto al ricongiungimento famigliare, ai suoi figli – è stato fatto anche il test del Dna per certificare che lo fossero davvero! – non è stato dato il visto». Resteranno separati dal loro padre. Evviva il “sacro valore” della famiglia… [Barbara Battaglia, ecoinformazioni]

In alto mare si chiude con il decalogo della convivenza

L’incontro con l’Altro, la percezione della sicurezza e i possibili modelli di convivenza sono stati tra i temi al centro dell’ultima sessione di «In alto mare», la tre giorni del Coordinamento comasco per la Pace, che si è svolta ieri, domenica 13 dicembre, allo Spazio Gloria.

Gli stranieri minano la nostra sicurezza. Almeno, così parrebbe. Ma basta considerare l’etimologia del termine «sicurezza», che deriva da «sine cura» cioè in assenza di preoccupazioni, per capire che i veri insicuri, nel nostro Paese, sono gli stranieri. A ribaltare il ragionamento e il clichè che declina l’immigrazione come un problema di ordine pubblico – ovvero di minaccia della sicurezza dei cittadini – è stata Chiara Giaccardi, docente di Sociologia della Comunicazione e di Comunicazione Interculturale all’Università cattolica di Milano, esponente dell’Associazione Eskenosen, intervenuta domenica 13 dicembre alla prima sessione della giornata conclusiva di «In alto mare», moderata da Thierno Ngaye dell’associazione 3 febbraio. Secondo la sociologa «tradurre la questione della convivenza con l’altro come una questione di sicurezza è una modalità miope e parziale, mentre dovrebbe essere una sfida. Non si tratta di «sine cura» bensì di un surplus di cura, un investimento forte che sarebbe necessario per costruire una reciprocità» tra la popolazione “autoctona” e le persone che migrano verso l’Italia.
Il tema dell’alterità è centrale nella rappresentazione sociale di ogni gruppo: per conoscere chi siamo “noi” dobbiamo forzatamente confrontarci con gli “altri”. Ed infatti «per vivere pienamente le proprie radici – ha continuato Giaccardi – bisogna forse perderle…Mentre la tendenza diffusa è quella di una polarizzazione in due “posture”: siamo globali per certi versi, soprattutto per quanto concerne i consumi e le mode, ma siamo iper radicati negli atteggiamenti difensivi». È così che può capitare che persone dalla dubbia fede cattolica diventino strenui sostenitori del crocifisso, del presepe, di ogni simbolo religioso collegato ad un’identità religiosa alla quale magari non appartengono nemmeno tanto…
Dunque «è l’alterità che ci porta alla comprensione e solo le identità ospitali sono identità libere». Socialmente, perciò, rimuovere, negare l’esistenza di tutto ciò che è lontano e diverso dal nostro gruppo conduce ad un «deficit di senso»: il tentativo di «possedere i significati, applicando un metodo idolatrico» non conduce a capire noi stessi né gli altri, e invece che rendere più sicura la società, la rende meno libera.
E di libertà ha parlato anche Grazia Villa, presidente dell’associazione nazionale La Rosa Bianca, convinta che questo concetto «non si possa rinchiudere in nessuna casa ma debba servire per volare alto». L’esperienza di Villa è quella dei tanti avvocati che accompagnano i migranti nella richiesta di una forma di tutela, che sia lo status di rifugiato, il diritto d’asilo o un permesso umanitario. È la testimonianza, commossa, di chi non sa come dire ad un immigrato che la sua domanda verrà respinta. La procedura, come ha spiegato Villa, passa infatti attraverso le commissioni territoriali sommerse di lavoro, che valutano le domande di asilo o richiesta dello status di rifugiato. L’accoglimento di tali richieste è rarissimo. A quel punto «il cittadino può fare ricorso di fronte ad un giudice che esamina la sua domanda ma è lo stesso soggetto emigrato che deve dimostrare di essere un perseguitato». Questa è infatti la conditio sine qua non per accedere alle forme di protezione previste dalle norme sovranazionali, tra le quali Villa ha citato la Convenzione di Ginevra. In realtà, in Italia avremmo uno strumento giuridico che è come «un treno ad alta velocità»: la Costituzione. L’Articolo 10, infatti, sul diritto d’asilo, introduce un ampio garantismo a favore di chi non gode dei nostri diritti.
Ma dalla Carta ad oggi, ne son passate di Bossi-Fini sotto i ponti…È per questo che «una volta respinta la domanda d’asilo, i migranti, che hanno un permesso di soggiorno provvisorio e magari hanno anche trovato un lavoro», perdono i loro diritti e «diventano rei di clandestinità». Di qui la proposta della rappresentante dell’associazione La rosa bianca: «ribaltare il tema del diritto d’asilo, parlarne non più come di una questione di tutela ma come un problema di libertà di movimento». Per Villa dovremmo «cambiare il lessico del diritto: l’allontanamento preventivo dell’alterità nega di fatto la libera circolazione degli umani, sancita da tutte le fonti giuridiche sovranazionali, inclusa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
I respingimenti, invece, negano totalmente il principio della libera circolazione e sono, secondo il moderatore dell’incontro, Thierno Ngaye, un indice «di quanto questa società sia moralmente malata». E un ulteriore deterrente per i migranti, che si ripiegano su se stessi, spesso in una condizione di isolamento.
Per uscire da questo rischio di ghettizzazione ed emarginazione sociale, anche la Chiesa gioca un ruolo nella società italiana. A rappresentarla, nel corso della seconda parte del dibattito di ieri, coordinata da Emilio Botta, presidente del Coordinamento comasco per la Pace, è stato monsignor Angelo Riva, proveniente dalla diocesi di Como, docente di teologia morale. A lui il compito di riaccendere il dibattito dopo la performance dei musicisti Francesco D’Auria (batteria e percussioni), Maurizio Aliffi (chitarra), Simone Mauri (clarinetto basso) e Marco Belcastro (voce, organetto e chitarra).
Per Riva, esiste un «dovere all’accoglienza, che si esprime attraverso l’assenza di atteggiamenti razzisti e xenofobi e con il rispetto di diritti e bisogni quali la casa, il ricongiungimento famigliare, il lavoro». L’accoglienza deve essere coniugata, politicamente e normativamente, con la legalità. Oltre a questi due elementi, l’interculturalità, per monsignor Riva, comprende «l’interazione con l’altro che dovrebbe condurre all’integrazione». Un’integrazione che non sia un «melting pot, l’accostamento di culture interscambiabili e quindi relative». Quale può essere allora l’apporto dei cattolici? «La dottrina sociale della Chiesa, la sussidarietà sociale, la fratellanza» sono un bagaglio culturale innegabilmente importante a partire dal quale la società, le comunità possono attingere.
L’attore e mediatore culturale senegalese Mohamed Ba, ultimo relatore del pomeriggio di ieri, ha raccontato la sua esperienza di migrante che ha subito pochi mesi fa un accoltellamento «perché negro», a Milano, senza essere soccorso da nessuno per un’ora. Un episodio successo, come specificato da Ba, una settimana dopo che un esponente politico propose carrozze della metropolitana riservate agli immigrati e quindici giorni dopo che il premier paragonò Milano a una città africana. Come si fa allora a prepararsi all’«appuntamento con il diverso»? E’ un rapporto di dare-ricevere: dunque occorre avere in primis qualcosa da offrire all’altro. Perché «la cultura è una pentola sul fuoco senza il coperchio»: qualcosa esce, qualcosa entra.
Allora l’integrazione, l’interculturalità possono (dovrebbero?) partire dal basso. «Basta decreti per stare insieme», chiosa Ba.  È sufficiente rispettare il suo, efficacissimo, «decalogo della convivenza:
-non avere altro dio all’infuori di te,
-non nominare la nazionalità degli altri,
-onora tutte le festività (anche quelle delle altre religioni e culture),
-onora la memoria della tua città e raccontala si nuovi cittadini,
-non testimoniare sulla cultura degli altri se non la conosci abbastanza,
-non rubare la parola agli altri ed impara ad ascoltare,
-non imporre solo i tuoi valori culturali,
-non desiderare solo la tua cultura,
-non desiderare solo la cultura degli altri,
-mai uccidere le differenze culturali».

[Barbara Battaglia, ecoinformazioni]

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