Davigo a Erba: «Bisogna indignarsi per fermare la corruzione»

La corruzione in Italia è più alta rispetto a vent’anni fa e occorre cambiare rotta per fermarne l’impatto negativo sulla politica, sull’economia e sulla società. Venerdì 4 maggio Piercamillo Davigo è intervenuto a Erba per l’incontro organizzato da Shongoti in una sala gremita di duecento persone, anche in piedi o sedute per terra: «Se la gente si indigna, la politica deve tenerne conto. Ma deve prevalere il senso di rispetto della legalità sullo spirito di fazione».

Piercamillo Davigo conosce molto bene il mondo della giustizia italiana. Dopo l’esperienza al Tribunale di Milano in cui, dal maggio 1992, con il pool di Mani pulite portò alla luce il sistema di corruzione nella politica italiana della Prima repubblica, oggi è consigliere della Corte di Cassazione. Sin dall’inizio della sua attività in magistratura si è occupato di corruzione, una pratica molto diffusa in Italia ma poco perseguita: «Negli ultimi quindici anni le condanne per corruzione sono scese di un decimo rispetto al 1995, mentre l’indice di percezione di Trasparency international aumenta, segnalando il dilagare del fenomeno». Ma perché se la corruzione è tanto diffusa nel nostro paese, il fenomeno non si riesce a combattere e arginare? «La corruzione è seriale, cioè ripetuta infinite volte da chi la compie, e diffusiva, perché chi è dentro la pratica cerca di coinvolgere altre persone». Questo è inoltre un reato “a vittima diffusa”, perché tutti sono danneggiati ma nessuno in maniera diretta; è un reato che non viene solitamente commesso davanti ad altri testimoni e sia i corrotti che i corruttori hanno il convergente interesse al silenzio. «Per questi motivi la corruzione – ha spiegato Davigo – è un reato ad altissima cifra nera, che è la differenza tra il numero di reati commessi e il numero di quelli denunciati». Nel nostro paese vengono presi solamente una parte dei delinquenti, e chi riesce a farla franca ed è a conoscenza di fatti di corruzione ma non lo racconta, diventa a un ricattatore nei confronti degli altri e deve farsi pagare il suo silenzio: «Questo spiega la splendente carriera dei condannati che diventano deputati in Parlamento. Io non ho mai pensato che rubare per il partito fosse meno grave che rubare per sé: rubare per il partito significa rubare per fare potere e contribuisce a creare un sistema in cui le persone per bene non ce la possono fare, perché un onesto deve conquistare le tessere una ad una direttamente con la gente, mentre il ladro compra le tessere con i soldi rubati e se non è sufficiente ruba di più per comprare più tessere. Il sistema premia i farabutti». Oltre alle conseguenze politiche, la corruzione ha forte impatto anche sull’economia e sulla società:«Il costo delle opere pubbliche aumenta incredibilmente e diminuisce la loro qualità, mentre nelle imprese il criterio di scelta del dipendente e dei ruoli di responsabilità non avviene secondo la competenza ma per familismo e ricattabilità, peggiorando sensibilmente la società. Oggi per fare carriera in Italia ci sono tre modi: la mignotta, l’ubbidiente fedele e il delinquente». Davigo suggerisce alcune proposte per uscire da questa situazione, a partire dalla ratifica della Convenzione di Strasburgo del 1999 e dall’introduzione in Italia del test d’integrità: «Negli Usa dopo le elezioni mandano poliziotti sotto copertura a offrire soldi agli eletti e chi accetta viene arrestato; in questo modo ripuliscono la classe dirigente senza la fatica di indagini lunghe e complesse».

Rispondendo alle domande dei presenti in sala Isacchi, accorsi davvero numerosi per questo appuntamento, Davigo ha spiegato come la necessità di istituire la responsabilità civile dei magistrati sia «Una bugia raccontata ai cittadini. “Chi sbaglia paga” è uno slogan perfetto, ma per i giudici è già previsto un rigoroso sistema di controllo e punizioni. Nel nostro lavoro in ogni caso scontentiamo qualcuno, il colpevole o l’accusa, ma introdurre la responsabilità civile servirebbe solamente a rendere meno forte la giustizia nei confronti dei potenti». Riguardo la situazione agonizzante del nostro sistema di giustizia, l’ex pm di Mani pulite ha detto che non è un problema di risorse, perché l’Italia spende quanto la Gran Bretagna, dove però vengono fatti 300.000 processi all’anno contro i 3 milioni del nostro paese. Il vero problema in Italia è la ragionevole durata dei processi, che non riusciamo a diminuire anche a causa del gran numero di avvocati che devono lavorare: «Ci sono più avvocati nella città di Roma che in tutta la Francia e ogni anno aumentano di 15.000. Una classe politica seria dovrebbe mettere il numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza». I cittadini, non solo con il voto ma anche come opinione pubblica, hanno una grande responsabilità nei confronti di questa situazione: «Se la gente si indigna, la politica deve tenerne conto. Ma se lo spirito di fazione prevale sul senso del rispetto delle regole, questo non è possibile: la reazione non può essere “siccome è dalla mia parte, lo devo difendere”, ma proprio perché è dalla mia parte che devo indignarmi di più. Bisogna fare in modo che si rendano conto che se salvano in Parlamento un camorrista che si siede di fianco a loro, la gente penserà che anche loro non siano tanto diversi da lui». [Tommaso Marelli, Ecoinformazioni]

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