La Rusalka di Alexander Pushkin
Messa in scena dalla Compagnia teatrale lezzenese, venerdì 12 aprile alle 21 all’Associazione Carducci in via Cavallotti 7 a Como, con la regia di Basilio Luoni. Ingresso libero
«Il Settecento aveva amato le fiabe esotiche, allegoriche, filosofiche. L’Ottocento romantico mise invece di moda le fiabe popolari: chi non ricorda la raccolta dei fratelli Grimm? In Russia, accanto a un appassionato del folklore come Afanasjev, a occuparsi di fiabe fu il più grande poeta del paese, Alexandr Puskin – ricorda un testo introduttivo –. Nei primi anni Trenta, con la levità sovrana che lo apparenta a Mozart, egli mise in versi le fiabe che gli aveva, da piccolo, raccontato la balia. Negli stessi anni, sempre in versi, drammatizzò la Russalka, una storia che ripropone il motivo della fanciulla tradita, suicida e trasformata in una vendicativa ninfa acquatica. Con tre protagonisti – la fanciulla sedotta ed abbandonata, il mugnaio suo padre e il principe seduttore – immaginati per voce di soprano, di baritono e di tenore, e con un dialogo in versi brevi, dove vengono a galla alcuni dei temi ossessivi di Puskin (l’avarizia ripugnante, il freddo fascino dell’oro, il vero amore riconosciuto sempre troppo tardi, l’imminenza di un Convitato di pietra inesorabile), la Russalka era pronta per il teatro d’opera. E infatti, nel 1865, con le musiche di Dargomizhskij che rielaborano danze e canzoni popolari russe, andò in scena con grandissimo successo al Marijnsky di San Pietroburgo. Subito dopo, a impadronirsi delle opere di Puskin per i loro melodrammi, sarebbero arrivati Musorgskij, Ciaikovskij, Rimskij-Korsakov e Stravinskij».
«Dargomizhskij non poté evitare di mettere un finale alla storia, che invece Puskin aveva lasciato incompiuta (al punto giusto bisogna dire, perché si intuisce benissimo quel che succederà) – precisa lo scritto –. Noi la interrompiamo là dove Puskin si era fermato: ai nostri giorni il finale “aperto” ci sembra un elemento di fascino in più».
«La Compagnia Lezzenese, nata a metà degli anni Sessanta, si è sempre dedicata a un teatro di poesia, dove l’elemento essenziale è il verbo, una parola che si sforzi di raggiungere ed esprimere, qualcosa di autentico, di vero. Non ha avuto paura di mettere in scena Molière, Aristofane, Plauto, Ruzante, Cechov o Euripide, né di affrontare con testi originali soggetti quali la Nascita di Cristo o l’Odissea. Se la maggior parte delle volte ha prodotto spettacoli in dialetto lombardo, non lo ha fatto per offrire al pubblico un divertimento da avanspettacolo, battute grasse e doppi sensi mortificanti – rimarcano gli scriventi –. L’aveva ben capito lo scrittore Sergio Ferrero, quando scriveva che il dialetto della Compagnia “ricco di antico coloriture e insieme di continue innovazioni” era usato “quasi a sfida di un Paese che… incominciava a cambiare ottusamente l’oro dell’italiano contro la carta moneta di uno pseudolinguaggio televisivo”. E l’aveva ben capito Giovanni Testori che il 22 luglio 1977, recensendo sul Corriere della Sera (terza pagina, sotto il titolo La tragica comicità dell’Avaro in comasco) una rappresentazione dell’Avaro molieriano diventato Pioeucc, poteva incominciare: “Come lo spirito della poesia, anche quello del teatro soffia dove soffia…” Sulla Compagnia Lezzenese allora, e speriamo anche questa volta». [md – ecoinformazioni]