Mense scolastiche: There is no alternative?
Parte la mobilitazione contro la privatizzazione del servizio di refezione scolastica, che seguiremo con attenzione a cominciare dall’assemblea in preparazione per mercoledì 21 febbraio. Prima ancora degli aspetti pratici (qualità del servizio, livelli occupazionali, costi) è opportuno uno sguardo di carattere generale: le alternative esistono, basta cercarle e praticarle.
Il quotidiano La Provincia del 15 febbraio ha pubblicato un virgolettato del Segretario Comunale di Como, a proposito del rinnovo del contatto stagionale, per il prossimo anno scolastico, a 47 ausiliarie che lavorano per la refezione scolastica: “Impossibile, lo dice la legge. Se secondo i sindacati ci sono norme che lo consentono, me lo facciano sapere perché io non le conosco”.
Forse inconsapevolmente, il Dr. Fiorella racchiude in questa frase una rappresentazione perfetta della situazione degli Enti Locali, dove il famigerato slogan tatcheriano “there is no alternative” è diventato un mantra, un dogma intoccabile che impedisce a che amministra di scegliere liberamente, non solo quali sono i servizi prioritari da erogare ai cittadini, ma anche le modalità organizzative dei servizi stessi.
Peraltro, non compete ai Sindacati, e tanto meno a questo blog, dare lezioni di diritto ai Dirigenti di un’amministrazione pubblica. Compete ai Dirigenti medesimi trovare soluzioni tecnicamente e giuridicamente sostenibili, che consentano di applicare gli indirizzi politici degli amministratori. Qui sta il punto.
Evidentemente la Giunta Comunale ha deciso che è venuta l’ora di privatizzare, gettando alle ortiche il lavoro svolto a suo tempo sul “punto unico di cottura”. Se questo è l’obiettivo, non vi è nulla di più comodo e funzionale che sostenere che non vi sono alternative, che la normativa non lascia spazi alla discrezionalità degli amministratori, che vi sono vincoli procedurali, che vi sono costi eccessivi, eccetera, eccetera, eccetera….
In questo modo, non c’è neppure bisogno di entrare nel merito delle questioni (adesso è la refezione, ma può valere per qualunque servizio pubblico che si decida di dismettere), tutto diventa scontato e la ricetta è già pronta: un bell’appalto, magari al massimo ribasso. Regole europee rispettate, bilancio sotto controllo, meno noie con personale, delega al fornitore per i rapporti con gli utenti del servizio. Ma guarda che meraviglia, quanti problemi in meno! E se qualcuno si lamenta, ci dispiace, ma sappia che non c’era alternativa.
Nasce da questo approccio culturale e politico la strategia delle privatizzazioni, che si sviluppa a partire dagli anni 90 in tutta la pubblica amministrazione ma trova terreno fertile in particolare negli Enti Locali, con progressiva dismissione della gestione diretta di tutti i servizi pubblici, sia quelli alla persona (servizi sociali, servizi scolastici), sia quelli di natura cosiddetta imprenditoriale (acquedotti, depurazione, reti tecnologiche). Invece di utilizzare il sapere giuridico per difendere questi servizi, in modo che i governi del territorio possano disporre di “bracci operativi” con cui promuovere i propri obiettivi di benessere delle comunità, si varano decine e decine di norme per aggredirli, e si giunge al punto di legiferare e deliberare in aperto contrasto con la volontà referendaria dei cittadini.
Vi sono però Amministrazioni locali che non si adeguano, studiano e realizzano modelli di gestione totalmente pubblica che funzionano, ma non sono certo le amministrazioni di destra. Como lo conferma: da quando sono in carica, hanno messo in discussione gli accordi sul servizio idrico, hanno depotenziato Acsm/Agam approvando un accordo di partecipazione alla multi-utility del nord Lombardia, ed ora vogliono privatizzare le mense.
Per coloro che trovino azzardato paragonare le mense scolastiche all’acquedotto o all’illuminazione pubblica, può essere utile rileggere l’opinione di un esperto come Guido Viale, che nel 2013 scriveva così: “Convertiti in beni comuni gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l’offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un’agricoltura ecologica di prossimità. Certo garantire l’incontro tra domanda e offerta richiede accordi di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza – ma non il funzionamento dei mercati – nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall’establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell’ambiente, con la normativa dell’Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E’ la strada che occorre percorrere. Invece, l’effetto principale delle politiche di austerità imposte in Italia con il patto di stabilità interno è lo svuotamento totale dei governi locali. Un Comune è tale – cioè “comune” – se fornisce ai cittadini i servizi di cui la vita associata ha bisogno: energia, acqua, gestione dei rifiuti, strade e mobilità, ristorazione collettiva (ma anche facilitazioni per gli approvvigionamenti individuali), case a prezzi accessibili, nidi e scuole materne, edifici scolastici che non crollino, assistenza agli anziani, spazi di socialità, integrazioni del reddito e così via. Un Comune che non è più in grado di fare non dico tutte, ma nessuna di queste cose non serve a niente.” [Massimo Patrignani]