
Un autobus fuori servizio durante lo sciopero nazionale del trasporto pubblico locale proclamato dall'Usb, Torino 30 maggio 2014 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
A che ora passa il futuro?
Tra ritardi, treni soppressi o inadeguati al trasporto di mezzi ciclabili, dissesto stradale e una viabilità goffa e faticosa, andare in bicicletta da Cantù a Como – per quanto siano i migliori ideali a spingere il piede sul pedale – assomiglia più a una brancaleonesca impresa mitologica che ad una possibilità reale. Eppure ci si riesce, a patto di sottrarsi al paradosso di un mondo contemporaneo (declinato anche localmente), che pretende velocità istantanea di chi studia, lavora e consuma e le risorse – inadeguate – che vengono messe a disposizione di coloro che, volenti o nolenti, ne fanno parte.
Da piazza Garibaldi a Cantù alla sede silenziosa del Comune di Como, ci si mette poco meno di un’oretta in bicicletta, così come hanno sperimentato le e i ciclisti che, con Fridays for future e altre associazioni, movimenti, personalità politiche e comitati, hanno pedalato lungo tutti i (sudati) chilometri sabato 14 maggio. Con la corriera, quarantacinque minuti, se si escludono i ritardi o le corse saltate. In macchina, venticinque tralasciando la variabile impazzita del traffico.
Il problema non è solo la possibilità di poter utilizzare un tipo di mobilità alternativa all’automobile, quanto piuttosto il compromesso che ogni volta si sottoscrive con il proprio tempo e con il tempo del pianeta.
Esiste un tempo “naturale”, scandito dal ritmo dei passi e da quello dei respiri, dall’alternarsi di stagioni diverse, dalla percezione delle distanze che ci separano da una mèta, dalla vita che segna la pelle degli esseri viventi.
E poi esiste un tempo “disumanizzato”, fatto di brevi istanti subito dimenticati, fretta ansiosa, urgenza di interconnessione; è quello di una fame insaziabile di profitto, in cui ogni traguardo viene rimosso frettolosamente perché la vittoria, il trionfo vengono spostati un po’ più in là prima ancora di arrivarci; è quello che divora gli esseri umani da dentro, spingendoli a spremere le proprie risorse fino all’ultima goccia incuranti di quello che arriverà poi, intrappolati nella bolla di un eterno, effimero presente; è quello che annerisce lo sguardo e il cuore di chi distribuisce armi, coltiva conflitti, fa la guerra.
Ecco, io penso che tutte e tutti noi rifiutiamo di contare così il nostro tempo, di farci dissanguare ancora in nome di interessi privati, di rimanere a guardare mentre altri con arroganza mettono le mani su un mondo e su chi ci vive che non sono di nessun padrone, non lo sono mai stati.
E allora sottraiamoci a quel compromesso bugiardo in cui ci ritroviamo intrappolati in un’eterna corsa affannata, riappropriamoci di quel tempo più vivibile e più umano, tornando in sintonia col battito pulsante del pianeta a qualsiasi latitudine e anche nel luogo in cui si vive, riappropriamoci delle strade e dello spazio a piedi, sui mezzi pubblici, in bicicletta perché “più veloce” non vuol dire “migliore”, perché “civiltà” non vuol dire “prevaricazione sul prossimo” e “progresso” non vuol dire “sfruttamento”.
Lavoriamo perché invece civiltà e progresso possano tornare a significare convivenza e cura per l’ambiente con infrastrutture pubbliche reali e funzionanti per la vita di comunità, accoglienza solidale senza discriminazioni, inclusività e pari opportunità, dignità lavorativa e sociale, economia senza diseguaglianze, pace.
Riappropriarsi del futuro vuol dire cambiare la mentalità e i sistemi di produzione e di mercato che ci stanno corrodendo l’orizzonte, scardinare la logica di prevaricazione che spinge verso il conflitto, l’utilizzo delle armi e le minacce di distruzione nucleare, rieducare e rieducarsi – nelle scelte politiche, nel lavoro, nella socialità e in qualsiasi aspetto della vita – ad un approccio sostenibile consapevole che passi attraverso il miglioramento e il riutilizzo di quello che abbiamo già (strade, edilizia, oggetti) invece di produrre “nuovi” vecchi rifiuti.
Solo così il tempo che passa può essere di nuovo lasciato fluire col proprio ritmo naturale, l’unico in grado di poterci far rispondere alla domanda «Che ore sono?» non con «è troppo tardi» ma con «il futuro deve ancora arrivare». [Sara Sostini, ecoinformazioni]