
ecoinformazioni 675
Anticipiamo l’editoriale Per chi appare l’arcobaleno? di Beatriz Travieso Peréz e Lux Callari del numero 675 del nostro quindicinale. La rivista sarà presto inviata ai soci di Arci-ecoinformazioni.
Per chi appare l’arcobaleno?
Non è un segreto che nel mondo della moda, sia ieri che oggi, ci sia una grossa partecipazione delle persone queer/comunità Lgbtqia+. Grandi personalità del secolo scorso, come Karl Lagerfeld, Christian Dior, Gianni Versace, Yves St Laurent, Giorgio Armani, hanno aperto le porte a designer più contemporanei come Alexander Wang, Phillip Lim, Demna Gvasalia (tra tanti, tantissimi altri). Mondo che ha anche ispirato la leggendaria e iconica scena “Ballroom” di New York negli anni 80, catturata nel documentario Paris is burning (1990,Jennie Livingston), da dove sono sorti designer come Pepper La Beija e Zaldy. Per tante persone questo mondo rappresenta l’utopia dell’apertura, dell’essere accettato in pubblico per come sei, di trovare i tuoi uguali senza doversi nascondere per paura delle ripercussioni sociali. Questa percezione di utopia è talmente interiorizzata che serve come archetipo in più film e serie tv.
Non è un segreto, neanche, che il Comasco si sia arricchito grazie a varie generazioni di industriali che hanno saputo sviluppare la moda e il lusso fino ad arrivare a livelli altissimi, con prodotti pregiati dalle più alte case di moda. Ma dentro si nasconde un “segreto ad alta voce”: se sei un uomo in questa industria, sicuramente sei gay. Le donne, con lo stereotipo di essere “più sensibili” e “più portate a queste frivolezze” hanno la loro eterosessualità messa meno alla prova, ma questo non significa che l’industria non ospiti un discreto numero di donne queer. È quasi scioccante trovare questo tabù nei confronti di identità queer nell’industria che, mondialmente, trova la propria controparte nella più grande concentrazione di arcobaleni per metro cubo. Non sorprende, dunque, che a Como la prima grande parata dell’orgoglio –ovvero Gay Pride – si sia svolta ben 22 anni dopo il primo Pride Italiano, e 30 anni dopo StoneWall.
Orgoglio, orgoglio, orgoglio gay!
Questo era uno dei cori che animavano il Gay Pride di Como, il 22 maggio 1999, organizzato da Arcigay in occasione della prima mobilitazione nazionale per le unioni civili. Una mobilitazione, infatti, che vedeva riunite associazioni del tempo di ogni genere e da ogni parte d’Italia, dal coordinamento nazionale omosessuali cristiani, fino allo storico collettivo del Cassero, prima realtà della storia Italiana che, a Bologna, viene interamente gestita da associazioni Lgbt, e che ancora oggi si occupa di socialità e militanza queer.
Il primo Pride della nostra città spiccò per la grande partecipazione, 5000 persone furono difatti coinvolte nella parata, la mancanza di una rete locale abbastanza forte di fronte alla chiusura della città, così come a un susseguirsi di amministrazioni di destra, prima che tale manifestazione tornasse grande nella nostra città si sarebbe dovuto attendere il 2021.
Un Pride è tale se è rappresentativo delle diverse facce di cui la storia associativa Lgbtqia+ e della comunità tutta è composta, rifacendosi alla spinta popolare e rivoluzionaria dei primi Pride, dalle pioniere di Stonewall ad oggi.
L’esigenza dei Pride
«La prima volta fu rivolta» è una scritta oggi trovata spesso nei Pride, scritta in tante lingue, popolando i cortei di tante nazioni. La scritta fa riferimento agli Stonewall Riots, il nome con cui oggi parliamo di quella serie di manifestazioni che sono avvenute a New York nell’estate di 1969. Lo Stone Wall Inn era una topaia, gestita dalla mafia, spazio ironicamente “sicuro” per la piccola comunità Lgbtia+ disposta a trovarsi in pubblico, ovvero prostitut* (uomini, donne trans), drag queens, lesbiche con presentazione piuttosto maschile (dykes), gruppi Bdsm leather, ragazzi scappati di casa e senza tetto, etc. Siccome all’epoca avere comportamenti amorosi non eterosessuali in pubblico era ancora illegale il bar era spesso sgomberato dalla polizia. La mafia, proteggendo loro interessi, avvisava di queste iniziative e nessuno veniva ferito, tranne quel fatidico 28 giugno 1969. La Polizia entrò violentemente nel locale e, trovando vendita di alcol illegale, arrestò 13 persone. Per sapere chi arrestare per travestimento, le “forze dell’ordine” portarono le presenti in bagno e li spogliarono per togliere ogni dubbio sulla loro “biologia”.
Durante e dopo questo sgombero, i vicini del bar insieme alle persone presenti non arrestate iniziarono a ritrovarsi insieme per strada, davanti all’entrata, parlando e discutendo la situazione presente e lamentandosi delle restrizioni, discriminazioni e violenza da parte della polizia. Urlavano anche contro i poliziotti, specialmente quando vedevano degli amici feriti o trattati male. A un certo punto un poliziotto provò ad arrestare Stormé DeLarverie e al suono delle sue urla le persone iniziarono a lanciare sassi, centesimi, bottiglie e tutto ciò che era a loro disposizione contro la polizia. In poco tempo la rivolta si fece violenta, obbligando i poliziotti a chiudersi dentro il bar insieme alle persone arrestate e un giornalista del Village Voice. I manifestanti, oppure la Mafia– non è chiaro- cercavano di dare fuoco al locale con tutti dentro. Ci sarebbero voluti vigili del fuoco e poliziotti anti-rivolte per fermare tutto. Rivolte simili emersero nel quartiere durante la settimana, diverse le persone accreditate per aver iniziato la rivolta. Tra le leader del movimento che sarebbe nato le donne trans e drag queen Marsha P. Johnson e Silvia Rivera.
Le rivolte servirono .anche come ispirazione per la nascita di gruppi di attivismo in tutto il mondo, e nell’ovest degli Usa sono considerate l’inizio della lotta contemporanea per i diritti delle persone lgbtqia+. A New York nacquero tantissime organizzazioni per la lotta dei diritti civili, come Gay Liberation Front, Gay Activist Alliance, tra altri. Tessuto sociale strumentale anche per iniziare la lotta contro la pandemia di Aids che colpisce particolarmente la comunità negli anni 90, e per l’eliminazione della omosessualità come disordine mentale dal Dsm (Diagnostic and statistical manual, libro di standard diagnostico psichiatrico) nel 1973.
Oggi, invece, è evidente come le basi sulle quali è stato costruito un movimento internazionale indispensabile, si stiano inevitabilmente andando a perdere a causa di strumentalizzazioni da parte di aziende e multinazionali. Le sfilate delle principali città del mondo sono invase da diversi gadget arcobaleno: magliette, bottiglie di acqua, cappellini, tutti targati da un centinaio di logo truccati rainbow. La loro distribuzione è spesso gratuita e toglie la possibilità ai gruppi locali di raccogliere fondi con gadget simili, effettivamente danneggiando le loro possibilità di crescita e visibilità in un evento che, almeno in teoria, è organizzato per loro.
In giro per il mondo, queste aziende rivelano la propria natura neo-colonialista, attraverso sfruttamento e violenza nei confronti di territori e di popoli, il mese di giugno diventa per ognuna di esse motivo per colorarsi di arcobaleno e, dunque, mascherare la propria vera natura in cerca di consensi nei confronti dello stesso sistema produttivo opprimente e limitante nei confronti di soggettività non conformi del mondo.
Si sta realizzando un reale “rainbow washing”, capace di strumentalizzare le identità al fine di asservirle ai propri guadagni. Si colorano di finti arcolabaleni aziende sfruttatrici nel mercato della moda (e non solo) impegnate nella rapina delle risorse nei paesi più poveri, come il mercato del coltan nella tecnologia high-tech,,come la soia. Accade, nel caso di alcuni degli sponsor più acclamati di Pride a noi vicini, che siano finanziatori di politici attivi contro l’autodeterminazione della comunità Lgbtqia+ in Italia e nel mondo.
È indispensabile, soprattutto in una regione come la Lombardia e a Milano, capitale economica del paese, rivendicare un mese dell’orgoglio queer che sia tale in ottica internazionale e transfemminista. Un punto di vista che non si affacci quindi solo ad una prospettiva di festa e celebrazione colorata fine a se stessa, ma che vada ad inserirsi invece in un processo politico realmente dal basso, che riporti la lotta queer ad essere innanzitutto lotta di classe, e di conseguenza anticapitalista e antifascista. Il Pride è per la comunità Lgbtqia+ un momento indispensabile per uscire all’esterno, per conoscersi, per fare rete e costruire un fronte unito davanti ad istituzioni ostili, davanti a forze dell’ordine che inibiscono l’autodeterminazione, e davanti a città che ostacolano corpi razializzati, portatori di disabilità e non conformi.
Il Pride deve essere delle persone e delle piccole comunità provinciali in cerca di uno spazio nel quale ascoltare e confrontarsi, senza paura di pregiudizi e atti ostili nei confronti delle soggettività che attraversano tali spazi collettivi. La violenza di genere, così come sui territori e sui popoli, non ha spazio in un paese che si vuole considerare democratico, e se abbiamo imparato qualcosa da secoli di invisibilizzazione dai governi, dalla Chiesa e dalla società tutta, è che non possiamo permetterci di delegare la nostra lotta. Il Pride è un grido, il Pride è la canalizzazione e l’organizzazione della nostra rabbia, il Pride è la difesa dei nostri corpi. Il Pride è, e deve essere, rivolta. [Beatriz Travieso Pérez e Lux Callari, ecoinformazioni]