I passi della riconversione

La riflessione di Elio Pagani (Centro di documentazione Abbasso la guerra) proposta durante l’incontro Invece della guerra, riconversione e diritti domenica 18 settembre allla Fiera de L’isola che c’è.

«Quando Gianpaolo mi propose di fare una relazione sulla riconversione al civile gli risposi che oggi non era produttivo parlare di questo, ma che fosse necessario parlare di come mettere al bando la guerra e tutti gli strumenti utili alla sua conduzione (concetti strategici, alleanze e spese militari, basi nucleari e convenzionali, porti e servitù militari, missioni “di pace”, finanza armata, ricerca, produzione ed esportazione di armi). Considerando che il titolo dell’incontro è Invece della guerra, riconversione e diritti, mi sono però sforzato a mettere insieme alcune riflessioni che mi paiono utili.

Negli ultimi anni molti, all’interno del movimento per la pace italiano, hanno invocato e proposto la riconversione della industria bellica. Purtroppo nella grandissima maggioranza dei casi queste affermazioni non erano che puri slogan perchè chi le proponeva nulla ha fatto per iniziare a praticarle. Ritengo che queste affermazioni, non tenendo conto del contesto nel quale venivano pronunciate, siano state addirittura fuorvianti e auto-consolatorie dando l’impressione che chi le proponeva avesse le idee chiare sulla questione o possedesse concreti piani alternativi.

Molti confondevano il reindirizzamento delle spese militari verso beni o servizi civili con la possibilità di conversione industriale, ritenuta conseguente ed esente da difficoltà.
Molti non consideravano la necessità di salvaguardare gli equilibri economici aziendali durante il processo di riconversione, inquinati nel bellico dalla garanzia statale e da superprofitti.
Molti non consideravano adeguatamente il problema del trasferimento tecnologico da un prodotto ad un altro o da processi produttivi ad altri.
Molti non tenevano conto che processi come questi potessero costare molto ai lavoratori, in termini di occupazione, di salario o di condizioni di lavoro.
Molti trascuravano la difficoltà della relazione, su queste cose, con i lavoratori sottoposti al ricatto occupazionale, e di come questo ricatto veniva usato come pretesto per non fare nulla.
Molti cadevano nel tranello semantico dei “beni a doppio uso civile o militare”.
Molti trascuravano di pronunciarsi sulla tipologia di beni alternativi da produrre.
A livello internazionale alcuni studi sono stati fatti, ricordo quelli immensi di Jhon Kenneth Galbraith, perfino a livello Onu, ed anche in Italia, negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, ma quanto questi studi sono stati presi in considerazione? Chi avrebbe dovuto studiarli ed utilizzarli?
Sono davvero pochi i casi nei quali si è tentato di praticare la riconversione a partire dalle risorse messe a disposizione per sviluppare questo processo. Quante ne hanno messe le associazioni pacifiste? E i sindacati?
E gli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni)? E quante ne ha messe a disposizione lo Stato? Quante a livello europeo?
La cosa come vedete è enorme ed io non posso che farne alcuni cenni.


Il più recente tentativo dal basso per la riconversione di una azienda militare, tentativo depotenziato dalla difficoltà ad avere rapporti con i lavoratori e i sindacati interni, che anzi sono contrari è quello del Comitato Riconversione Rwm.
La denominazione del Comitato è: “Comitato per la riconversione della Rwm per la pace, il lavoro sostenibile, la riconversione dell’industria bellica e il disarmo, la partecipazione civica a processi di cambiamento, la valorizzazione del patrimonio ambientale e sociale del Sulcis Iglesiente”.
Loro riferimenti sono l’art.11 della Costituzione e la legge 185/90.
La loro iniziativa comprende anche azioni legali contro l’esportazione di bombe in Arabia Saudita.
Il loro riferimento alla legge 185/90 è anche relativo alle norme che supportano la riconversione al civile.
Infatti l’articolo 1 comma 3 della Legge 185/90 dice: «Il Governo predispone misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie del settore della difesa».
Concetto poi ribadito e reso praticabile col comma 2 dell’art.8 dove si dice: «… l’Ufficio (di Coordinamento della produzione di materiali di armamento) contribuisce anche allo studio e alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese. In particolare identifica le possibilità di utilizzazione per usi non militari di materiali derivati da quelli di cui all’articolo 2 (materiali di armamento) ai fini di tutela dell’ambiente,
protezione civile, sanità, agricoltura, scientifici e di ricerca, energetici, nonché di altre applicazioni nel campo civile». (Al comma successivo si dice, tra l’altro, che l’Ufficio «… si avvale del contributo di esperti
indicati dalle organizzazioni sindacali e degli imprenditori»).
Nella interpretazione giuridica più stretta, il comma 3 dell’art.1 può significare che, qualora il Governo vietasse ad una azienda di esportare armi, dovrebbe predisporre le misure suddette per evitare che questo divieto si traduca in un danno delle aziende e dei lavoratori. Ciò traducendo in pratica gli studi effettuati sulle possibilità di riconversione.
Se se ne desse invece una applicazione estensiva, cioè che va al di là degli specifici divieti, significherebbe che il Governo dovrebbe predisporre comunque piani per la diversificazione e riconversione di ogni azienda bellica, piani da implementare qualora fosse necessario in ragione di decisioni politiche (applicazione della 185/90 o azioni di disarmo unilaterali o multilaterali), o anche, perché no, per ragioni di mercato, ma questo non è fino ad oggi mai avvenuto.


La difficoltà a co-definire con sindacati e lavoratori Rwm piani di riconversione ha spinto il Comitato a preparare sul territorio una alternativa alla occupazione bellica.
Ciò si è tradotto nel progetto Warfree, nato nel 2019 da una ricerca socioeconomica sulla Sardegna svolta da un gruppo di giovani universitari e docenti dell’Università di Cagliari, finanziata dalla Chiesa Evangelica
del Baden (Germania), motivata per ragioni umanitarie ad intervenire in aiuto alla Sardegna “occupata” dalla fabbrica di bombe Rwm, di proprietà tedesca.
Dalla ricerca è emersa la necessità di supportare le imprese ecosostenibili ed etiche della Sardegna in maniera da facilitare lo sviluppo di un solido tessuto economico solidale alternativo all’industria bellica
(servitù militari comprese) e all’industria predatoria (mineraria, degli idrocarburi e dell’alluminio) che hanno lasciato sul territorio gravi ferite ambientali e sociali.
Nel 2021, le più di 30 imprese etiche ed ecosostenibili della Sardegna che aderiscono alla Rete Warfree si sono costituite in associazione di categoria ed è nata una cooperativa giovanile a supporto del progetto; il numero degli aderenti alla rete è in costante crescita.
Le aziende che condividono il progetto si sono messe in Rete per avere consulenze gratuite, per poter vendere sul mercato globale tramite un sito web, per avere maggiore visibilità, per coordinare le proprie iniziative imprenditoriali e sostenere contemporaneamente la creazione di nuove attività sostenibili sotto l’aspetto economico, etico e ambientale, per godere di una solidarietà di rete.
Recentemente la rete ha depositato il marchio collettivo europeo Warfree.
Attualmente, il progetto è sostenuto da un finanziamento dall’8×1000 della Chiesa valdese italiana, da Aps Link – Legami di fraternità, dal comitato Riconversione Rwm, e ha tra i suoi partner: Banca Etica, Legambiente, Gam-Fcei, ed è supportato da un comitato scientifico composto da alcuni docenti di materie Economico-sociali dell’Università di Cagliari.


Abbiamo però detto della ostilità dei sindacati e dei lavoratori RWM a parlare di riconversione.
Invece uno splendido esempio di coinvolgimento dei lavoratori nelle proposte di riconversione al civile fu quello che si sviluppò, nella prima metà degli anni ’70, in Inghilterra alla Lucas Aerospace dove tecnici, impiegati ed operai, svilupparono autonomamente, utilizzando spazi e strumenti aziendali, attraverso una sorta di “sciopero al contrario”, prototipi di prodotti alternativi, socialmente utili, che poi presentavano sul
banco delle trattative aziendali. Ciò permise loro di resistere per un po’ di tempo alle espulsioni previste dal piano di ristrutturazione della direzione aziendale, come capitò all’ing. Mike Cooley, leader di questa lotta.
Le proposte del piano alternativo non furono accettate dalla direzione di Lucas e nel 1981 Cooley fu licenziato. Egli continuò comunque la sua attività implementando il concetto di “sistema centrato sull’uomo”, sistema che aumenta le capacità della persona piuttosto che diminuirle e subordinare la persona a una macchina in nome della produttività e del profitto. Continuò a sviluppare progetti alternativi nel Centro per lo studio dei sistemi industriali alternativi (Caits) e anche nel Gleb – Greater London Enterprise Board, finanziato da fondi del Comune metropolitano di Londra. Più di centocinquanta prodotti, da lui coordinati, sono stati offerti in campi che vanno dall’oceanografia alle nuove energie, comprese le attrezzature mediche e il trasporto. Non a caso nel 1987 fondò una associazione per la responsabilità sociale degli informatici.


Nella seconda metà degli anni ’70 la Flm decise di realizzare un Coordinamento dei delegati della industria bellica con i seguenti obiettivi: far crescere la consapevolezza tra i lavoratori della insostenibilità di lavorare per la realizzazione di prodotti di morte, avere una visione precisa di quanto quelle singole aziende producevano ed esportavano, lottare per ottenere una legge per il controllo e la limitazione dell’export di armi come strumento di un internazionalismo concreto, definire progetti e spingere le aziende a diversificare e/o riconvertire al civile la produzione.
I molti sforzi fatti da lavoratori e delegati dagli anni ’80 ai primi anni ’90, pur generosi, non hanno dato i frutti sperati, anche se le aziende che hanno diversificato la loro produzione verso il civile hanno meglio
difeso la propria occupazione.
Significativo, da questo punto di vista è l’esempio di Agusta (oggi in Leonardo Divisione Elicotteri), con una presenza importante di produzione civile sempre difesa dai lavoratori.
Altri casi, tra i molti in cui la lotta per la diversificazione e riconversione al civile è stata più difficile ma con caratteri interessanti, sono ad esempio quello delle officine Galileo di Firenze (oggi in Leonardo Elettronica per la difesa terrestre e navale). Importante lavoro fu fatto anche nello spezzino e più in generale in Liguria grazie anche all’utilizzo dei fondi europei Konver.

Qui voglio ricordare solo 2 casi: la lotta in Aermacchi e quella della Valsella.
In Aermacchi, alla fine degli anni ’80, anche a seguito di forme di lotta innovative da parte di alcuni lavoratori e la presentazione di una piattaforma (sostenuta da oltre l’80% dei lavoratori) che chiedeva l’anticipazione a livello aziendale di quella che sarebbe stata la L.185/90 e una svolta nel civile, l’azienda iniziò a diversificare nel campo dei velivoli regionali (il programma più significativo fu il Dornier 328) e in importanti aero-strutture per gli airbus e per i boeing.
Successivamente, con l’apertura della trattativa sulla cassa integrazione, il Comitato di lavoratori per la democrazia propose un ulteriore impegno verso la riconversione, ma nonostante il sostegno di molti lavoratori, non poté porre in votazione la propria piattaforma per l’opposizione dei sindacati che preferirono allearsi con l’azienda nella richiesta di commesse militari, ritenute più semplici e sicure.
Tuttavia la presenza del civile garantì fino ad almeno l’anno 2000 metà degli occupati in quel campo contro una occupazione praticamente tutta militare nel 1988. Come già accennato il Comitato fu annientato economicamente, e dunque politicamente, con l’espulsione definitiva della maggior parte dei suoi membri.
Gli attivisti non si persero d’animo e fondarono il Comitato dei cassaintegrati Aermacchi per la pace e il lavoro, che continuò nella lotta contro la lobby e la produzione militare e a favore della riconversione e a tutela dei lavoratori. Una delle loro proposte alternative fu: finanziare la ricerca e lo sviluppo di un velivolo civile ad “idrogeno solare”.

Don Renato Sacco ebbe a dire di questa lotta: l’esempio della riconversione della Valsella, azienda che produceva mine antiuomo: «… il suo impegno di riconversione che ha visto la collaborazione di tutti: società civile, missionari, comunità cristiane, sindacati, ecc. può essere un esempio».
Tuttavia bisogna ricordare che all’interno della Valsella ci fu un gruppo di lavoratori, soprattutto donne, che attorno alla loro leader sindacale, Franca Faita, poi per questo insignita del fregio di Cavaliere del lavoro, lottarono dall’interno per spingere la direzione a trattare sulla riconversione.
Tuttavia questa esperienza è sintetizzabile con le parole di Michele Cotti Cottini, ricercatore del Dipartimento di Economia aziendale dell’Università degli Studi di Brescia, nel suo studio Valsella Meccanotecnica: storia di una riconversione controversa: «(…) si può ragionevolmente sostenere che quello della Valsella Meccanotecnica è un caso di riconversione parzialmente riuscita dal punto di vista politico-
istituzionale, del tutto inconsistente dal punto di vista economico-aziendale».

Strumenti ideati e parzialmente realizzati negli anni scorsi a supporto della riconversione:
– Fondo per la riconversione dell’industria bellica
Le prime proposte di legge per l’istituzione di un fondo per la riconversione dell’industria bellica furono presentate nel 1986 e nel 1987 dal Partito Radicale e nell’ ’88 dalla Sinistra Indipendente, altre proposte
analoghe seguirono. Altre proposte furono depositate nel 1992 da esponenti di Democrazia Proletaria ed altre ancora e più avanti.
Il fondo fu effettivamente istituito con la Legge 237del 1993 (Interventi urgenti a favore dell’economia) che previde uno stanziamento di 50 miliardi di lire annui per dieci anni (500 miliardi in totale), a seguito anche della lotta del “Comitato Cassa Integrati Aermacchi per la Pace e il Diritto al Lavoro”, formato da lavoratori e delegati (operai ed impiegati) “riconvertisti”, espulsi dagli stabilimenti di Venegono (Va).

– Utilizzo fondi europei Konver I e II
Uno strumento utilizzato negli anni ’90 per supportare a livello dei territori il processo di riconversione al civile fu il programma di fondi europei Konver pensato per supportare aziende, lavoratori e territori nella
difficile transizione dalla dipendenza del bellico dovuto alla guerra fredda.
Nel nostro Paese con Konver I arrivarono dall’Europa circa 18 milioni di euro (con un potere di acquisto pari a 35 milioni odierni).
L’Italia stanziò al programma Konver II oltre 103 miliardi di lire (circa 53 milioni di euro allora, circa 76 milioni oggi) tra il 1996 e il 1997. Dunque cifre non così significative.
Questi fondi furono utilizzati, in Liguria rilanciando l’occupazione sul territorio spezino, in Lombardia, in Piemonte, in Toscana, in Lazio.
Nel 1998 parte di questi fondi furono dirottati a sostegno delle zone terremotate del centro Italia.
Anche qui due i problemi. Primo, nessuno ha realmente vigilato sull’effettivo impiego di questi fondi, né sulle entità erogate per singoli progetti (in Italia ci sono solo studi isolati da cui non è possibile trarre grandi insegnamenti, in Germania è andata meglio grazie al monitoraggio del BICC. In questa caso occorreva gestire al meglio la riconversione di una buona parte delle aziende belliche e delle basi militari della ex Germania Est).


Tra le agenzie per la riconversione pubbliche o private ricordo:

  • L’iniziativa “Conversia”. Questa iniziativa fu lanciata nel novembre del 1991 e coordinata per l’Italia da Romano Prodi, allora presidente di Nomisma, in supporto alla riconversione della industria bellica sovietica,
    una riconversione che era valutata costare 200-250 milioni di rubli, il 20-25% del PIL dell’URSS. Iniziativa proseguita anche dal 1995 con gli investimenti e Joint Venture tra Italia e CSI Comunità degli Stati Indipendenti (9 delle repubbliche ex sovietiche) dove però solo marginalmente sono state coinvolte le aziende militari in processi di riconversione.
  • Il BICC Bon International Center for Conversion. Il BICC fu fondato come società a responsabilità limitata senza scopo di lucro nel 1994 con il sostegno dello Stato delle Renania Settentrionale Westfalia (NRW) oggi ancora suo azionista. Il Centro fa ricerca applicata e inizialmente si occupava soprattutto di Riconversione dal bellico e smilitarizzazione (sono 235 le pubblicazioni sul tema) che sosteneva anche materialmente. Oggi il Centro la cui denominazione è diventata: Bonn International Centre for Conflict Studies, si occupa di una vasta gamma di argomenti globali nel campo della ricerca sulla pace e sui conflitti.
  • L’Agenzia per la riconversione della industria bellica lombarda. Fin dall’ ’86 furono proposte leggi regionali che prevedevano studi o sostegni alla riconversione (la prima alla Regione Lazio). Il più importante progetto, divenuto effettivamente operativo, fu quello ottenuto in Lombardia dalla lotta durata tre anni (dal 1991 al 1994) del “Comitato dei Cassaintegrati Aermacchi per la Pace e il Lavoro”, essi riuscirono a far approvare la Legge Regionale 6/1994 che finanziava progetti alternativi presentati dalle aziende. Le imprese vincitrici dei bandi e beneficiarie dei finanziamenti dovevano garantirne la loro implementazione produttiva.
    La Legge funzionò effettivamente alcuni anni, poi con l’avvento delle giunte Formigoni non fu più utilizzata, né fu accettata una sua versione innovativa presentata nel 2003 da un ampio schieramento di soggetti sociali.

Guardando al caso Leonardo (prima Finmeccanica) la riconversione implementata è quella dal civile al militare. Ora Leonardo è, per fatturato, la 12sima multinazionale del settore, l’ottava tra le aziende occidentali, la prima in Europa. E’ cresciuta enormemente in pochi anni, in particolare durante la pandemia, dove le altre produzioni erano ferme mentre occorreva potenziare il settore della sanità e della cura. Ora l’83% del suo fatturato è militare.
Questo perché dal 1991 viene applicato il Nmd Nuovo modello di difesa, più recentemente nella versione del Libro bianco della difesa presentato dalla Ministra Pinotti, ed oggi nell’approccio strategico del Ministro della difesa Guerini. L’industria bellica è considerata una delle colonne portanti delle capacità militari del Paese e dunque va potenziata sia con flussi di denaro pubblico destinato in particolare a sistemi di proiezione della potenza, sia favorendo una concentrazione e razionalizzazione industriale, sia con l’appoggio all’esportazione di armi.

Nel recente documento della Ripd Analisi e le proposte della Rete Italiana Pace e Disarmo in vista della XIX Legislatura, si dice tra l’altro: «Promuovere politiche concrete di riconversione dell’industria militare verso la produzione civile, con rafforzamento di fondi per lo sviluppo locale sostenibile, in particolare istituendo una agenzia nazionale per la riconversione (dotandola di fondi necessari per ricerche e studi)».
Occorre tener presente che questa proposta viene fatta dopo 25 anni nei quali in Italia si è solo parlato di riconversione che non è stata oggetto di studio né di pratica, salvo il caso Rwm e la proposta di
riconversione della aerobase nucleare di Aviano. Francamente questo approccio non mi sembra all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.
Non ci rimane che poco tempo: la spesa militare va ridotta drasticamente, così per le esportazioni belliche.
Le produzioni militari delle aziende vanno chiuse.
E’ dimostrato che i problemi tecnici alla riconversione si possono affrontare e risolvere, sia attraverso uno sforzo delle imprese (magari sostenute da Enti pubblici), sia accettando sacrifici anche da parte dei lavoratori. Basta però utilizzare il mito della riconversione come strumento a portata di mano. Il modo come essa è stato spesso proposta diventa alibi per chi (imprese, sindacati e lavoratori) non vuole prenderla neppure in considerazione.
Al punto in cui siamo occorre considerare che costa meno pagare i lavoratori mentre sono a casa e preparare la loro ricollocazione altrove, piuttosto che spendere risorse per garantire il lavoro nella produzione bellica o sostenere diversificazioni inconsistenti.
Come dicevo, abbiamo poco tempo, non possiamo aspettare lo sviluppo di studi e ricerche su prodotti alternativi e poi industrializzarli, esistono già settori come quello delle energie rinnovabili (escluso dunque gas e nucleare) in fase di rapido sviluppo, innovazione ed espansione, occorre considerare una ricollocazione dei lavoratori “liberatisi” dalla produzione militare in questi settori, anche fuori dalle aziende di provenienza. Non è possibile poi spingere ulteriormente l’acceleratore sul consumismo, gli equilibri ecologici non lo permettono. Si tratta semmai di redistribuire il lavoro che c’è praticando una significativa riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, anzi aumentandolo vista la continua contrazione del suo valore.

Anche Papa Francesco richiama frequentemente la necessità di fare presto, di mettere al bando le armi nucleari di non produrre più armi e di non esportarle, di disarmare. Recentemente ha detto:
«È necessario mobilitare tutte le conoscenze basate sulla scienza e sull’esperienza per superare la miseria, la povertà, le nuove schiavitù, e per evitare le guerre. Rifiutando alcune ricerche, inevitabilmente destinate, in circostanze storiche concrete, a fini di morte, gli scienziati di tutto il mondo possono unirsi in una comune disponibilità a disarmare la scienza e formare una forza per la pace».

Oggi le avanguardie più consapevoli del movimento dei lavoratori, rifiutano collettivamente di contribuire ad operare nel ciclo della produzione-circolazione bellica e alla guerra. Un esempio anche citato da Papa Francesco, è l’iniziativa dei lavoratori portuali di Genova organizzati nel Calp, che rifiutano di caricare sulle navi armi destinate all’Arabia Saudita per essere usate nella sua guerra in Yemen.
Questa loro azione ha stimolato anche la costruzione della rete Weapons Watch che monitora il trasferimento delle armi sulle rotte marine e che ha l’obiettivo di un’azione coordinata tra i portuali a livello internazionale, almeno europeo.
Anche in questo caso viene a galla, accanto al rifiuto a partecipare col proprio lavoro ad attività belliche, una domanda da parte dei lavoratori di poter fare un lavoro socialmente utile, eticamente corretto, ecologicamente virtuoso.

Ricordando la recente proposta dei 50 premi Nobel per la riduzione, concordata a livello Onu, della spesa militare, il premio Nobel Parisi dice: «È fondamentale una riduzione delle spese militari. L’Italia deve incrementare i finanziamenti in ricerca scientifica anche perché quell’1,4% del Pil di cui si parla rappresenta la somma dei contributi pubblici e di quelli privati: si tratta di un dato molto preoccupante per il sistema Paese perché causa un’emorragia di giovani formati dalle nostre Università ma costretti ad andare all’estero. Oggi circa il 50% dei ricercatori italiani svolge la sua attività prevalentemente in altre nazioni europee, ma la ricerca scientifica è fondamentale per costruire l’industria moderna, se non vogliamo che il nostro sia un Paese di soli “servizi”». Un altro sbocco della spesa militare risparmiata è dunque quello della ricerca nel civile.

Il problema però è stabilire per quale ricerca civile si vuole operare. I settori più innovativi oggi sono la farmacologia, la biologia e l’ingegneria genetica, la nuova agronomica, l’informatica, la robotica, la gestione dell’infosfera e del metaverso, l’intelligenza artificiale, le scienze cognitive, la simbiosi tra uomo e intelligenza artificiale, l’energia (in particolare la sua produzione con le rinnovabili e col nucleare, la sua trasformazione, il suo trasporto, le sue varie applicazioni), l’esplorazione spaziale, la scienza dei materiali e le nanotecnologie, la fisica delle particelle.
Di fronte al rapido sviluppo in questi campi occorre definirne precisi limiti. Gli attori devono aderire alle pratiche etiche riconosciute o da definire, e ai principi etici fondamentali. Emergono problemi morali ed epistemologici. L’applicazione della Ricerca & Sviluppo in questi settori ha un enorme impatto sugli uomini, sugli esseri viventi e sull’intero creato, impatti che possono anche colpire la dignità, l’autonomia, l’integrità personale e la vita privata dei cittadini, ecc.. In sintesi, non tutto ciò che è possibile è buono. Occorre affermare il dovere alla responsabilità sociale di questi attori economici, la nuova ricerca, le nuove produzioni non devono aumentare la nostra impronta ecologica, anzi dovrebbero provocare un’inversione della crisi climatica e ambientale. Devono essere socialmente utili. Devono ridurre al minimo le disparità tra le persone. Dovrebbero integrare il concetto di superamento della visione antropocentrica purtroppo ancora dominante.
Pensiamo alle applicazioni possibili della ingegneria genetica, ad es. alla clonazione, alla realizzazione di chimere; senza che ci siano limiti dove ci possono portare? O alla robotica e soprattutto all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale applicata in modo pervasivo, ad es. al riconoscimento facciale o al controllo sociale digitalizzato. Secondo ricercatori dell’università di Oxford e di Google DeepMind l’intelligenza artificiale rappresenterà sul serio un rischio esistenziale per l’umanità poiché si potrebbe mettere in competizione con l’uomo per l’acquisizione e l’utilizzo dell’energia. Lasciamo piena libertà a Neuralink, la tech start-up di Elon Musk, specializzata nella integrazione cervello umano e intelligenza artificiale?
Dobbiamo permettere che si realizzino dei cyborg? Dobbiamo accettare senza batter ciglio la transizione al trans-umano e al post-umano?

A proposito delle precedenti considerazioni, pensiamo davvero che il nucleare sia la soluzione migliore per risolvere il problema energetico? Come possiamo credere alle bugie che ci vengono propinate su fattibilità, tempi, costi, conseguenze a lunghissimo termine dell’energia nucleare. Essa è costosa e pericolosa.
Una soluzione vera c’è ed è quella delle energie rinnovabili. E’ una rivoluzione necessaria e urgente per tutelare l’ambiente e per liberarci dalla dipendenza energetica che genera tante guerre, una rivoluzione una conversione industriale che si può fare liberando le rinnovabili dai vincoli burocratici e supportandone l’innovazione, considerando anche che oggi il costo dell’energia rinnovabile è solo 1/3 di quella nucleare.
Le ultime innovazioni hanno portato ad esempio i pannelli fotovoltaici ad essere 5 volte più potenti e 10 volte meno costosi di 10 anni fa. I campi di sviluppo nel campo delle rinnovabili sono: pannelli fotovoltaici bifacciali, pannelli alla Perovskite – silicio, pannelli a inseguimento solare, pannelli per l’agro-fotovoltaico
Pannelli senza consumo di suolo, sugli edifici pubblici, sulle scuole, sulle barriere acustiche delle autostrade, sulle aree militari, campi fotovoltaici ibridi (che vanno in sinergia con la produzione di altre energie verdi), eolico flottante offshore, pale eoliche che si orientano nella direzione del vento, boe che sfruttano il moto ondoso producendo energia in quantità e stabile, energia da biomasse, smart greed, accumuli innovativi: nuove batterie, pompaggio idrico, idrogeno (vettore energetico), robot per la pulizia dei pannelli e la diagnostica di funzionamento (per annullare la perdita del 30-35%), lo sviluppo di comunità energetiche.
Ricordiamo che gli obiettivi UE sulla riduzione delle emissioni climalteranti è il -55% al 2030 e zero emissioni al 2050. Puntando decisamente sul settore i tempi potrebbero essere ulteriormente ridotti.


Quello che ci serve è una conversione economica, verso un’economia disarmata e non fossile, una finanza e una attività bancaria etica, una economia circolare. Abbiamo bisogno della decrescita di un’economia predatoria fondata sull’estrattivismo e sul consumismo e di una parallela crescita di un “buen vivir” che mette al centro la persona, le relazioni, il rispetto e la tutela della natura.
Dobbiamo mettere al centro del nostro sogno collettivo, della nostra progettazione, approcci come quello della Laudato si’, dell’economia del dono, dell’Economy of Francesco, con l’obiettivo di creare lavoro dignitoso per tutti, equamente distribuito e socialmente utile, eticamente corretto, ecologicamente virtuoso». [Elio Pagani, Centro di documentazione Abbasso la guerra]

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