
Tina Merlin/ Una strage che si poteva evitare
Ci sono tragedie ineluttabili e stragi che possono essere evitate. In questo periodo difficile nel quale spesso si è confusi dalla cattiva informazione e condotti a opinioni e comportamenti lesivi del diritto a vivere nostro e di altri, può essere utile ricordarsi di giornaliste vere che denunciarono le scelte irresponsabili e assassine fatte dal potere per salvaguardare l’economia dominante, cioè gli interessi solo dei più ricchi. Per questo sono andato a rileggere la storia di Tina Merlin giornalista, partigiana e comunista, la “Cassandra del Vajont”. Nei nostri tempi bui, nei quali la voce dei media è in larga misura troppo impegnata a tessere le lodi senza ritegno dei potenti, distraendosi dal compito di raccontare la realtà, è il caso di studiare il lavoro di una vera professionista del giornalismo. [Gianpaolo Rosso, ecoinformazioni]
Tina Merlin
«All’indomani della tragedia del Vajont, il 9 ottobre di 56 anni fa, Tina Merlin scriveva a conclusione di un accorato articolo sull’Unità: «Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa». E ancora 25 anni dopo, in un discorso di commemorazione a Erto, la giornalista ricordava quei sensi di colpa per non essere riuscita a farsi ascoltare, per non essersi rivoltata con tanta forza da evitare la tragedia.
Tale senso di colpa aveva però del paradossale: Merlin, un’oscura corrispondente di provincia, era stata l’unica giornalista italiana a raccogliere le proteste degli abitanti di quelle zone durante la costruzione della grande diga a partire dal 1957 e a segnalarne poi ripetutamente i pericoli, tanto da meritarsi lo sprezzante nomignolo di “Cassandra del Vajont”.
Si era in pieno boom economico, le grandi opere ingegneristiche erano segno di modernità e un numero esiguo di montanari lamentosi non poteva di certo frenare il progresso: la diga del Vajont era la più grande e avveniristica d’Europa, «un capolavoro anche dal punto di vista estetico», per usare le parole di Dino Buzzati (Corriere della sera, 11 ottobre 1963), che da quelle zone proveniva. Inoltre, anche su quelle terre si era combattuta negli anni precedenti alla tragedia una battaglia molto aggressiva sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, sostenuta tra gli altri dal PCI e osteggiata da gran parte della DC, e ora l’ammissione dell’errore – o ancor peggio di una negligenza – da parte dell’azienda privata costruttrice, la SADE (nazionalizzata nel 1962 nell’ambito della istituzione dell’ENEL), avrebbe avuto implicazioni politiche notevoli.
La posizione della maggior parte della stampa fu, infatti, “imprevedibilista” – così si autodefinivano coloro che sostenevano che le cause erano naturali e non vi erano responsabilità umane – e le denunce di Merlin furono intese da più parti come strumentali e dettate da pura ideologia: alcuni dei suoi più autorevoli colleghi, come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, giunsero fino ad accusarla di sciacallaggio politico.
Al contrario di loro, Merlin conosceva invece molto bene la realtà di quei luoghi. Nata nel 1926 in provincia di Belluno, dove ora viveva, proveniva da una famiglia di contadini, aveva solo la terza elementare ma era riuscita a entrare mediante concorso all’Unità nel 1951. In quel decennio aveva denunciato in una serie di articoli le condizioni di povertà dei montanari, il problema dello spopolamento e dell’emigrazione, i soprusi compiuti dalla SADE durante gli atti di esproprio di terre e case in tutta l’area dolomitica del Veneto. Aveva coadiuvato gli abitanti nel riunirsi in un consorzio per difendere i loro diritti e per superare le divisioni che li indebolivano, e aveva poi cominciato a fare inchieste approfondite sui rischi di quell’opera, dal momento che tutti i locali ben conoscevano la franosità del Monte Toc. Nel 1959 era stata processata con l’accusa di diffondere notizie false e tendenziose contro la SADE, uscendone tuttavia assolta – in sostanza un’ammissione che il pericolo esisteva. Nel novembre del 1960 aveva raccontato di una prima enorme frana che aveva tremendamente allarmato i locali e il 21 febbraio del 1961, sempre dalle pagine dell’Unità, Merlin si chiedeva: «Il cedimento causato dall’invaso del Vajont si verificherà lentamente o con un terribile schianto?», sperando nella prima ipotesi.
Nonostante gli evidenti segni di una tragedia del tutto prevedibile e delle gravi responsabilità della SADE, quella di Merlin e dei superstiti rimase una voce isolata ancora per lunghi anni. Una sua intervista alla TV francese subito dopo il disastro fu censurata e la giornalista ebbe anche difficoltà a trovare un editore per il suo Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, pubblicato infine nel 1983. Inizialmente la posizione dell’imprevedibilità dell’evento passò anche nelle aule di giustizia: sarebbe stata infatti solo la Cassazione nel 1971 a riconoscere definitivamente l’accusa di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento (e solo nel 2000 si sarebbe conclusa definitivamente la causa civile per danni).
A dare risonanza alla versione di Merlin e dei superstiti e a rendere finalmente consapevole l’opinione pubblica ha contribuito poi una serie di film, documentari e opere teatrali, tra i quali va almeno citato lo splendido monologo Il racconto del Vajont (1997) di Marco Paolini. [Da l’Enciclopedia Treccani]
