
Lacio drom: il viaggio (dei e) con i Litfiba
Le strade sono spesso un luogo metafisico oltre che reale, e spesso nel crocevia dei pensieri si ritrovano sensi smarriti e nuovi orizzonti da percorrere, ciascun pensiero col proprio passo, ciascun piede con la propria impronta. Quella lasciata dai Litfiba è inconfondibile: un’orma di musica profonda quarantadue anni, in cui la carica rabbiosa del rock – nato nelle propaggini della scena post-punk e new wave italiana, cresciuto con una spina dorsale acida, provocatoria e sperimentale, maturato con risultati non sempre encomiabili, ma invecchiato con rinnovato vigore – si è intrinsecamente legata alla denuncia sociale, alle vicende politiche italiane e internazionali, in un urlo scomposto, non sempre di uguale efficacia e intensità, eppure capace di unire il timbro vocale di tante generazioni. Un ricordo, dopo la data del 24 maggio all’Alcatraz di Milano.
Muoversi è intrinseco nel concetto stesso di vita, e forse questo stato dinamico porta con sé quella sensazione indefinita di nostalgia che orla i bordi dei pensieri quando si arriva ad una destinazione. Salutare i Litfiba, impegnati nell’ultimo tour prima del ritiro, ha proprio quel sapore insieme malinconico e soddisfatto di chi ha fatto tanta strada e si guarda indietro, un’ultima volta, prima di lasciarla per abbracciare l’orizzonte.
Quella della formazione toscana è una strada «lunga e diritta», che attraversa in maniera trasversale la storia recente anche sul palco dell’Alcatraz: quella musicale, che da Desaparecido a Mondi Sommersi, passando per 17 re, Terremoto e Spirito segna pietre miliari del panorama alternativo italiano, in grado di tratteggiare con un ghigno un po’ trasgressivo, scanzonato e provocatorio (quello che si immagina all’inizio de El diablo) le perturbazioni di passioni di Fata Morgana, la crescita e le peregrinazioni di Apapaia, Lousiana, la bellissima Tziganata, con cui misurare il proprio passo nelle latitudini del mondo, respirando lo stanco, consumato spleen blueseggiante dei viaggiatori.
Attraversa anche la storia culturale, in cui Piero Pelù e Ghigo Renzulli (e lo spirito di Ringo) hanno transitato – con successi alterni e fortune altalenanti: in molti non gli hanno ancora perdonato qualche scelta artistica più recente, eppure basta la struggente Eroi nel vento per ricordarsi il motivo per cui vale la pena averli visti, anche solo una volta.
Interseca e si unisce anche alla storia della musica schierata verso la denuncia sociale in un muro compatto di Ci sei solo tu, Proibito (ma anche Dottor M, Nuovi rampanti), in cui si punta consapevolmente il dito contro moralità stantie e bigotte, classismo e discriminazioni, radicando l’impegno pacifista e anti-militarista scritto nero su bianco nei testi di Guerra, Prima guardia o la partecipazione alla Carovana della pace di Sarajevo nel 1991, dando il loro contributo alla lotta per la legalità con «il cortocircuito nella stanza dei bottoni» di Maudit o l’anti-omertosa Dimmi il nome.
Questo tipo di impegno non si assume solo per accattivarsi le simpatie del pubblico, perché richiede una convinzione, un grado di aggiornamento e informazione costanti che necessariamente scendono oltre il velo superficiale delle notizie distratte, dei proclami da spettacolo o dell’autoincensamento dilagante; può risultare accessorio al pubblico di Regina di cuori e dei successi più radiofonici, ma è inscindibile dalla figura del gruppo di via de’ Bardi a Firenze. Sparami, Istanbul raccontano, in questo concerto ed in tutti gli altri, di conflitti forse dimenticati ma mai sopiti (dalla Siria all’Africa), denunciati nella musica e nell’operato di tante realtà solidali. Così come parla chiaro lo spazio lasciato per le parole di chi rappresenta Bauli in piazza e la richiesta di normative e tutele per il mondo dello spettacolo, le cui lacune nell’ambito sono così state messe a nudo negli scorsi due anni di pandemia; oppure, infine, la necessità di cambiare sistema, modo di produrre o di consumare. È forse quello che arricchisce – come ogni volta che la musica si è fatta eco e portavoce di necessità politiche e sociali – le splendide sfumature sonore dei Litfiba, rendendo più doloroso quell’addio artistico che stanno dando al proprio pubblico in tutta la penisola.
Nell’ultimo concerto il modo migliore di salutare i musicisti è cantando con loro, libando sudore e ricordi sull’altare delle Muse, ricambiando come si può («c’è chi danza e chi canta, siamo gli angeli e vogliamo vendetta, cherie») il valore in cui ciascun ascoltatore e ascoltatrice declinano gli assoli di chitarra, le tastiere new wave e progressive, il basso profondo, la batteria arrabbiata, la voce capace di stregare: ciascuna e ciascuno filtrandolo attraverso il proprio vissuto, tutte e tutti però con note e parole sedimentate tra le esperienze più preziose.
Randagi e con la fascinazione per il nomadismo girovago ed apolide, i Litfiba sono stati cantori di viaggi mentre essi stessi erano in movimento su una rotta unica, mostrando come non conta dove si arriva, ma come ci si va: «La strada dove finisce? Senza piedi userò le mani, fino alla pista che non esiste, la cavalcherò su venti ed uragani». Lacio drom, buon viaggio, Litfiba.
[Sara Sostini, ecoinformazioni; foto di copertina dal sito ufficiale dei Litfiba]