La cura sull’orlo del bosco

Nella serata di giovedì 16 febbraio lo Spazio Gloria ha ospitato la presentazione del libro L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà, scritto da Cecco Bellosi, ex militante di sinistra e responsabile della comunità Il gabbiano. L’autore ha dialogato con Martino Villano, vicedirettore del Csv, e Katia Trinca Colonel sui temi della giustizia riparativa, della cura e delle istituzioni totali alla luce della contemporaneità.

L’esperienza di Bellosi rispetto alle istituzioni totali è duplice. Da una parte, infatti è stato a lungo recluso sotto l’articolo 90 (antesignano del 41 bis, di fortissima attualità in relazione al dibattito sul caso Cospito); dall’altra, oggi, lavora in comunità di recupero che lui stesso definisce anarchiche, auto-organizzate ed imperniate su un solo fondamentale concetto: l’importanza della cura dell’altro.
Cura che, in quella che il relatore ha definito la «società delle solitudini», non dovrebbe essere quella farmacologica, tipica di una realtà analgesica e in fuga da sé e dal dolore; strutture come Il gabbiano si collocano invece nella penombra del bosco. Un’immagine, questa, che rimanda ad un punto geografico ben preciso, il “bosco” di Rogoredo, che ospita centinaia di persone che vivono una quotidianità di dipendenze e disumanizzazione. Il limitare del bosco non è però solo quello vicino alla tristemente nota stazione, bensì rimanda anche ad una postura dell’educatore e in generale della persona che, forte del proprio più o meno aspro vissuto, risponde alla chiamata dell’alterità e, con i propri mezzi teorici ma soprattutto umani ed affettivi, cerca di rispondere.

È corretto il riferimento, citato nella domanda che ha aperto l’incontro, all’alterità per come la pensa Emmanuel Lévinas, per cui l’Io è in una certa misura oggetto prima che soggetto perché chiamato all’azione dall’altro. Cecco Bellosi, attrezzato della propria esperienza carceraria e da una concezione molto avanzata del potenziale di realizzazione umana, ha scelto di percorrere una via diversa da quella dell’istituzione totale. Il gabbiano è una realtà che si impernia sul riconoscimento, sulla cooperazione e sulla socialità, tanto interna quanto esterna. Sono tanti gli esempi di interazione tra membri della comunità che, dopo un percorso di confronto e superamento almeno parziale del proprio dolore, sono a propria volta divenuti riferimenti di responsabilità nell’organizzazione del Gabbiano. Per contro, la comunità è un organismo sociale che dialoga con il territorio, dunque propone iniziative e si fa portavoce dei bisogni non solo degli ospiti, ma della cittadinanza tutta (facendosi, ad esempio, capofila delle proteste contro la divisione in zone rosse di Calolziocorte, mozione effettivamente ritirata dalla giunta).

Il punto di partenza del pensiero della cura elaborato da Bellosi è una critica aspra alle istituzioni totali, che ha in Italia il precedente illustre della lotta contro i manicomi condotta dai coniugi Basaglia. Questi luoghi di cura o rieducazione troppo spesso mancano i propri scopi statutari, rendendosi gabbie di contenimento di un disagio che non andrebbe contenuto, ma elaborato. L’idea di assistere meccanicamente persone che troppo spesso sono viste attraverso etichette (delinquenti, pazzi, tossici) porta a far vivere loro condizioni disumane. Ad esempio, la vita carceraria sotto articolo 90 era, per Bellosi, un’esistenza di reclusione anche culturale e sociale; non solo detenzione, ma anche impossibilità di leggere libri o di sviluppare corrispondenze sincere, date l’onnipresenza dell’ascia della censura.
La contemporaneità presenta sintomi nuovi, ma le istituzioni hanno fatto poco per essere all’altezza di problematiche che, a differenza di un problema dilangante a fine ‘900 come l’Aids, secondo il relatore non possono essere contenute né minimizzate, ma andrebbero affrontate come ciò che sono: manifestazioni di una malattia collettiva. Il disagio della società liquida non è solo disagio psicologico, spinta al limite in cerca di un riconoscimento che famiglie disattente o social muti non possono offrire; è anche un morbo diffuso come è stato il covid.
La pandemia ha riportato Bellosi a parlare delle carceri, in cui per oltre un anno è stata negata l’ora d’aria per evitare contagi: l’umanità definitivamente negata. Il medesimo annullamento lo subiscono quotidianamente le persone sottoposte al 41 bis, un regime anticostituzionale che va contro il principio di recupero e “rieducazione” di cui la reclusione dovrebbe invece essere veicolo.

La società contemporanea presenta insomma grosse problematiche che hanno una forte ricaduta sugli individui e che non ci si può limitare a medicalizzare. Per curarle non si può non guardare ad un profondo rapporto sé-altro costruito sull’empatia e che faccia da fondamento per un percorso di reale (ri)soggettivazione.
D’altro canto, però, è necessario ragionare sul come si è arrivati a questo proliferare di pandemie psico-fisiologiche. Un punto di partenza può essere la fine del pensiero di comunità e l’arroccamento nell’individualismo: temi profondi, politici ma ancora prima filosofici che non sono ancora abbastanza trattati ma che è necessario affrontare per ripensare l’esistenza umana in un senso di realizzazione profonda. L’utopia vede una società in cui non sia più necessario curare gli effetti traumatici del riconoscimento mancato. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]

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