
Morte per pena
Da Cospito al Bassone, così le istituzioni negano la dignità umana. Lo sciopero della fame di più di cento giorni contro il 41 bis del militante anarchico Alfredo Cospito ha contribuito a riaccendere i riflettori dei media nazionali e dell’opinione pubblica sui problemi del carcere e del sistema penitenziario italiano: sovraffollamento, mancanza di servizi, impronta punitiva e non rieducativa delle istituzioni. Anche a Como le carenze sono evidenti, come dimostrano le condizioni del carcere Bassone, dove mancano risorse e personale. A risentirne non solo i detenuti, ma gli anche agenti penitenziari.
Nel 2013 Alfredo Cospito è stato condannato a 10 anni e 8 mesi di carcere per aver sparato alle gambe a Roberto Adinolfi, allora amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Inoltre, accusato di aver posizionato due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano (Cuneo) sta attendendo che la corte pronunci la condanna definitiva – l’accusa è passata da strage semplice a strage politica nonostante l’assenza di morti e feriti, per cui si attende il parere di costituzionalità dalla Consulta. Cospito rischia altri vent’anni e il reato è punibile con il carcere ostativo (ovvero l’impossibilità di poter usufruire di benefici penitenziari, la semilibertà o il lavoro all’esterno per l’intera durata della pena).
Da aprile 2022 è sottoposto a regime di 41 bis, che prevede l’isolamento, la limitazione dell’ora d’aria, il limite dei colloqui con persone che non siano familiari, il controllo della posta in entrata e in uscita e la negazione di giornali e libri. Il provvedimento è arrivato a seguito della valutazione delle lettere inviate da Cospito e delle pubblicazioni di area anarchica, giudicate «pericolose ed eversive», perché esortano i militanti anarchici a continuare la lotta con ogni mezzo contro un sistema capitalista e le istituzioni. Come ha affermato il suo legale, in quasi dieci anni nessuna delle pubblicazioni era mai stata considerata pericolosa.
Dal 19 ottobre 2022, Cospito ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro questa condizione e contro l’accusa di strage politica a suo carico. Ha perso circa 40 chili, si muove in sedia a rotelle e recentemente si è fratturato il naso dopo una caduta in doccia, come ha dichiarato a Radio Onda D’Urto la sua dottoressa di fiducia Angelica Milia – diffidata, tra l’altro, da diffondere informazioni proprio alla radio antagonista bresciana «al fine di non vanificare le finalità del regime di cui all’ex art. 41 bis O.P.» (secondo una nota inviata dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Sassari, dove era detenuto Cospito) – che lo ha visitato appunto nel carcere di Bancali.
La responsabilità di decidere sulla compatibilità della condizione di Cospito, trasferito da qualche giorno in cura nell’ospedale del carcere di Opera di Milano, con il regime di 41 bis è in questo caso in capo alla Corte di Cassazione, che non si pronuncerà prima di inizio marzo. Tuttavia, sempre il legale di Cospito e la dottoressa Milia hanno sottolineato il pericolo per la vita del detenuto, che intanto continua il suo sciopero. In questo senso, la decisione sulla vita e la morte del militante anarchico è in capo al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che potrebbe intervenire nella vicenda solo cambiando la norma ministeriale che impedisce al Ministro della Giustizia la revoca del 41 bis. Serve chiedersi, in casi come questi, se la pena del 41bis sia davvero compatibile con la tutela della vita e la salvaguardia della persona.
La questione è dunque nelle mani del governo, che a seguito degli attentati degli anarchici nel mondo in solidarietà con Cospito, ha risposto di non voler trattare con gruppi eversivi e di voler far rispettare la sicurezza e la disciplina. Ma neanche da parte degli anarchici della Federazione Anarchica Informale (FAI) c’è alcuna volontà di trattativa. È bene separare la questione del movimento anarchico violento dalla condizione di una persona in mano allo Stato la cui vita è in pericolo; ma questo il governo non sembra comprenderlo, e a nulla sono serviti gli appelli di alcuni magistrati e intellettuali.
Lo Stato deve rispondere a se stesso, ai principi e ai valori sui quali si fonda, non alla violenza con la violenza. «Non si può far morire una persona in carcere. La giustizia va rispettata ma ci sono situazioni che pure vanno rispettate, che mettono in gioco la vita di una persona», racconta Luigi Nessi, da anni volontario al carcere Bassone di Como.
In gioco c’è anche la Costituzione, che lo Stato dovrebbe considerare una bussola per orientare nella giusta direzione il proprio giudizio e i propri provvedimenti anche verso coloro che sono vivono situazioni di detenzione. Ma così non è: spesso i detenuti sono lasciati a se stessi e vivono in condizioni disumane, e questo in aperta violazione – tra gli altri – dell’articolo 27 della Costituzione che recita «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In questo senso, anche l’utilità della misura del 41 bis, pensato inizialmente per contrastare il fenomeno della criminalità organizzata dal giudice Giovanni Falcone quando i boss dettavano legge nel carcere Ucciardone di Palermo, dovrebbe poter essere discussa e riesaminata oggi.
I diritti dei detenuti, più in generale, in molte carceri italiane non sono garantiti per diversi aspetti, a causa del sovraffollamento, della carenza di personale e della repressione violenta, considerata a volte dal personale penitenziario come modo primario (o unico modo) di relazionarsi con chi è in carcere. L’ultimo caso eclatante in termini di violenze è quello emerso con le inchieste di Nello Trocchia, giornalista del quotidiano Domani, che ha messo in luce i pestaggi avvenuti nel periodo pandemico soprattutto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma le problematiche sono diffuse, e non riguardano solo i soprusi.
Il tasso di affollamento ufficiale delle carceri italiane è del 107,7%, con 54.841 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti. Inoltre, la carenza di personale è un fattore piuttosto comune che va ad aggravare la situazione. Lo racconta Giuseppe Incorvaia, subcommissario Uil del Lario, parlando delle carceri e in particolare del carcere Bassone di Como. «All’interno del carcere di Como molte figure mancano: dalla psichiatra alla psicologa, tutti gli operatori che si occupano di interloquire, comunicare e quindi favorire il reinserimento nella società di chi ha commesso un reato», afferma Incorvaia. «Mancando queste figure il dettato costituzionale di reinserimento di chi ha commesso un errore viene derogato. Ma il detenuto gode di diritti come gli altri cittadini, ha sbagliato e ha avuto la sua pena. Ma è un essere umano che va tutelato».
A Como emerge però anche il tema dei diritti dei lavoratori, nel caso degli agenti penitenziari. «Quaranta agenti in diciotto mesi hanno subìto aggressioni, proprio perché nel carcere ci sono situazioni particolari, con detenuti con problemi e disagi psicologici. Gli agenti penitenziari sono chiamati a svolgere un ruolo gravoso e subiscono infortuni. Si pone quindi anche la questione della tutela della salute di agenti, che sono lavoratori come altri», continua Incorvaia, che il 13 gennaio ha incontrato il prefetto insieme a un delegato Uilp proprio per discutere di questi temi. Secondo Luigi Nessi «nel Bassone le condizioni del carcere negli anni sono anche migliorate. Gli operatori, a livello di amministrazione e agenti penitenziari, sono persone positive che fanno correttamente il loro lavoro. Il problema è una struttura inadeguata. Rispetto al passato si sta tentando di migliorare la vita dei detenuti, ma quello che occorrerebbe sono maggiori educatori».
Intanto per la casa circondariale di Como è stata recentemente presentata un’interrogazione parlamentare da Chiara Braga, deputata del Partito Democratico, indirizzata al Ministro Nordio, dove si evidenziano le carenze e si richiede un intervento. Dal Bassone alle carceri italiane, passando per il caso dell’anarchico Cospito, si parla di una situazione, come detto, più punitiva che rieducativa. Proprio secondo Costituzione, è bene ribadirlo, la rieducazione deve essere l’obiettivo della pena e la logica stessa della detenzione. Ma spesso ciò non accade, così che pena e detenzione sono sinonimo di violazioni alla dignità umana e la loro inefficacia è ulteriormente sottolineata dagli alti tassi di recidiva. Ad oggi, troppo spesso, il detenuto smette di essere un cittadino quando varca la soglia di un istituto penitenziario. Ciò si traduce anche in un alto tasso di suicidi: 74 dall’inizio dell’anno, secondo l’associazione Antigone.
Nel sistema giudiziario italiano la pena di morte per reati commessi in tempo di pace è stata abolita nel 1948 e nel Codice penale militare nel 1994. Ma per l’abolizione della morte per pena bisognerà ancora attendere. [Daniele Molteni, ecoinformazioni]