La scuola dell’ascolto secondo Novara

Nella serata di venerdì 24 marzo, al cinema Astra, si è tenuto l’incontro Ascoltiamoli. L’iniziativa era organizzata come epilogo di restituzione e riflessione del percorso Non uno di meno: per educare un bambino ci vuole un villaggio, che da poco prima della pandemia alla primavera 2023 ha organizzato in varie scuole provinciali iniziative di coinvolgimento didattico-pedagogico per una scuola inclusiva e che vada oltre la mera trasmissione nozionistica. Ospite dell’incontro è stato Daniele Novara, pedagogista.

Concludere un progetto come Non uno di meno, che ha coinvolto diverse scuole tra Mozzate, Como, Cantù e, a latere rispetto alla struttura iniziale, Erba, è stato qualcosa di emozionante per gli organizzatori e gli enti coinvolti, ma ha anche aperto il dibattito sul “che fare?” in una situazione educativa precaria come quella attuale. Se si pensa solo alla serie di incontri ed attività proposti nell’ambito dell’iniziativa e al fatto che molti sono stati forzatamente ripensati e ripianificati a causa della pandemia, è chiaro che il cantiere per una scuola nuova, migliore, più umana sia tutt’altro che chiuso.

Con Daniele Novara ha dialogato Ilenia Brenna, dell’Enaip Como e tra le principali anime di Non uno di meno, che ha perimetrato il discorso alla dimensione comunitaria e di ascolto della scuola che si vorrebbe poter creare. Una scuola che dovrebbe uscire dalle logiche competitive per andare incontro alle esigenze di soggettivazione e riconoscimento di ragazzi e ragazze nel pieno dell’adolescenza e, dunque, della scoperta di sé, delle proprie capacità e dei propri limiti.
Educazione, allora, molto più che istruzione, formazione anziché trasmissione di vuote competenze, ascolto anziché parola che opprime, che si impone e che lascia i ragazzi soli nel mezzo dei discorsi di potere e sapere del sistema educativo: questa in sintesi l’idea alla base di Non uno di meno. Una visione che trova riscontro anche nelle richieste manifestate da ragazzi e ragazze di varie età e raccolte nei diversi video proiettati nel corso della serata: ascolto, felicità, partecipazione, crescita sono solo alcune delle parole chiave emerse dalle riprese di focus group, momenti di didattica all’aperto e attività sportive mostrati come prodotto “restitutivo” alla platea.

Dal canto suo, Novara è stato supervisore pedagogico del progetto ed è chiara nella narrazione proposta nel corso della serata la sua visione della scuola. Non un luogo di competitività, ma di stimolo e confronto: la scuola è degli studenti, è un luogo di presenza dove il contatto e la reciprocità fanno la differenza. Il ruolo del professore, per come è rappresentato nella società dell’aziendalismo e dei Pcto, è quello della figura competente che indottrina su cosa si deve fare e cosa no, su cosa sapere e cosa no; secondo Novara, invece, l’aula (o lo spazio didattico) dovrebbe essere letto in termini di generatività. Per sapere cosa succede nel 1789 basta consultare un libro (o internet), per diventare persone, responsabilizzarsi, identificarsi, cercare di rappresentarsi cos’è vivere e qual è senso che ha per sé la vita, bisogna invece vivere, sbagliare, relazionarsi, essere riconosciuti e riconoscersi.

Temi esistenziali più che didattici che, evidentemente, non è facile gestire nemmeno attrezzati delle migliori intenzioni.
Proporsi di costruire uno spazio dove ciascuno e ciascuna scoprano cos’è per sé l’esistenza scivola facilmente nella realizzazione di un contesto che veicoli una certa idea di cosa voglia dire essere persona. Non si tratta di ridiscutere in termini relativisti principi basilari come alcuni principi etici (che peraltro emergono “spontaneamente” dal pieno riconoscimento dell’altro), ma di far passare in filigrana una certa idea di vita buona che rischia di essere in fin dei conti limitante. Così, la Lettera ai quindicenni letta da Novara non può non risultare un vademecum di un’esistenza che per qualcuno o qualcuna potrebbe essere non solo non condivisibile, ma ancora prima irrealizzabile: “viaggia, studia, lavora prima dei venticinque anni” sono ingiunzioni ammirevoli, ma che rischiano di collassare in un’iper-performatività insostenibile.
Lo sclerotismo di un modello-factotum si scontra tra l’altro frontalmente con la narrazione dell’adolescenza proposta nel corso dell’incontro: una prospettiva emersa chiaramente dalla rappresentazione che un ragazzo e tre ragazze di istituti comaschi hanno portato sul palco e che vede i e le giovani come vittime dell’ansia, inascoltati nei loro vissuti traumatici, succubi della competizione scolastica, annoiati da una scuola che è meramente nozionistica. Risulta difficile immaginare che una persona in preda all’ansia abbia le forze (per non parlare del tempo) di studiare, fare sport, frequentare i pari, leggere, viaggiare. Tutto ciò perdipiù non in termini di perfezione, ma anche permettendosi il “lusso dell’errore”, cioè del tempo impiegato a ragionare su di sé, a tentare soluzioni nuove e insomma a sperimentare.

Insomma, se la società presenta un modello di soggetto che è difficile accettare, d’altra parte serve una forte riflessione su cosa si intende per soggettivare. Da una parte, in breve, sembra che un’opzione sia circondare di esperti i e le giovani, mettere a disposizione ambienti, tecnologie e saperi per formare i soggetti del futuro; ma ciò implica avere un obiettivo, una visione che rischia di creare una pedagogia della finalità travestita da formazione del (e nel) processo.
Dall’altra parte c’è invece una situazione simile per quanto riguarda il setting pedagogico, con l’aggiunta però di una quota di rischio: infatti, oltre all’ansia i e le ragazze potrebbero avere altro da esprimere, qualcosa che potrebbero voler dire prima che venga loro detto da altri che soggetti potrebbero e forse anche dovrebbero diventare, cos’è un buon cittadino (ecologista, antifascista, antirazzista, certamente) e come, grazie a ciò che hanno a disposizione, possano finalmente diventare. Se l’educazione capitalista è un problema, la scommessa della soggettivazione racchiude in sé la possibilità che i soggetti non siano come ce li si immagina all’inizio. Non è un tema da poco: il processo di soggettivazione pedagogico è un discorso anche accademicamente aperto, ed implica molto più potere di quanto non si sia forse disposti ad ammettere. C’è però in gioco anche il fascino di indirizzare senza determinare, di assistere come altri ed altre percorreranno una via che chi educa a grandi linee conosce già, facendosi sorprendere dalle relazioni e nella relazione educativa.
Proprio dalla forza dell’incerto che connota la generatività potrà partire Non uno di meno se vorrà, come è emerso nelle ultime battute della partecipata serata, proseguire nella sua riflessione sulla comunità educante territoriale. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]

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