Memorie di un’esplosione

Nel pomeriggio di giovedì 29 giugno l’istituto Carducci ha ospitato la presentazione del libro 12 dicembre 1969: la perdita dell’innocenza [Calibano editore], organizzata dall’istituto di Storia contemporanea Perretta, Auser Como ed Arci ecoinformazioni. Celeste Grossi ha dialogato con Luigi Lusenti e Fabio Sottocornola, i due autori, guidando il pubblico attraverso la vicenda editoriale del libro e le tante riflessioni legate all’attentato fascista e di stato di piazza Fontana.

Tanto si è scritto e tanto si è detto, congetturato, temuto e studiato, riguardo quel drammatico pomeriggio milanese, che è difficile ad oltre cinquant’anni dall’esplosione aggiungere elementi alla vicenda. Certo, manca ancora la rivendicazione politica di uno dei punti di svolta della recente storia italiana e la vicenda giudiziaria inerente piazza Fontana è stata talmente complessa e lenta che la sua conclusione non può davvero essere soddisfacente; ma da un punto di vista giornalistico, professione dei due autori, aggiungere cronaca o, ancor più difficile, storia era improponibile. Il taglio de La perdita dell’innocenza è allora in un certo senso più umile ma anche più umano: aprire la scatola nera della memoria collettiva e personale attraverso le voci di ventuno tra intervistati ed intervistate che, direttamente o indirettamente, «vivono con la bomba».
L’attacco stragista di piazza Fontana è ben più che un evento di cronaca, è un vero e proprio spartiacque storico, un momento a partire dal quale gli stessi rapporti umani tra i cittadini italiani si sono venuti a modificare. Che l’Italia fosse un paese facile alle divisioni politiche non era una novità, ma mai come dal momento inaugurale degli Anni di Piombo la divisione tra “rossi” e “neri” ha spaccato amicizie, famiglie, rapporti in generale.

Quella del 12 dicembre 1969 è una ferita aperta, ha sottolineato Grossi; lei che era a Catanzaro durante il processo all’innocente Valpreda ed è una delle intervistate del libro. Un momento di dolorosa svolta non solo per via del lutto, ma anche per il fatto che gli eventi immediatamente successivi hanno confermato uno scarto importante nella storia italiana. Lo Stato italiano, per la prima volta, era infatti inequivocabilmente colluso con l’organizzazione dell’attentato. Era chiaro fin da subito con la tragedia di Giuseppe Pinelli, anarchico accusato per depistare le indagini di essere esecutore materiale e poi ucciso nelle stanze della questura milanese; ma lo provano, tra le altre cose, anche il successivo coinvolgimento della P2 e le ulteriori vie cieche che le indagini hanno preso nel corso di un iter giudiziario infinito.
Farsi raccontare quei tragici momenti, nelle intenzioni degli autori, serve allora a dare misure umane ad un evento incommensurabile, raccontando le storie di persone che per impegno professionale, carriera e scelte di vita portano con sé una forte traccia di quel giorno.

Dalle parole di Pisapia, Albertini, Camusso, Mella e Guido Salvini tra gli altri emergono i tratti comuni e le divergenze di una narrazione che, come è tipico della storia postfascista italiana, non è ancora appieno patrimonio comune. Dunque se tutti, a sinistra come almeno a centrodestra, concordano sulla natura fascista dell’attentato e sul fatto che i mandanti fossero le camicie nere di Ordine nuovo e gli esecutori materiali Freda e Ventura, c’è chi cerca poco opportunamente di mettere sullo stesso piano stragismo e brigatismo, mentre altre voci raccontano l’eco lontana (ma chiara per gli italiani all’estero) dell’esplosione nelle cronache europee e lo sconvolgimento di un’Italia divisa anche lontano dal Duomo.
Di questo evento drammatico e che segna e continua a segnare la coscienza politica del Belpaese resta una «pietra d’inciampo orizzontale», la scritta Banca nazionale dell’agricoltura, la stessa di allora, in piazza Fontana, alla fermata del 27, dietro al Duomo, a due passi dall’università Statale.

Piazza Fontana, l’uccisione di Pinelli, lo stragismo e gli Anni di piombo sono qualcosa di indelebile nel vissuto di chi c’era allora, di chiunque abbia una benché minima passione per la storia contemporanea e di chi si avvicina alla politica. La memoria, però, è un concetto labile, uno dei più evanescenti per quanto riguarda lo studio della storia e, come ha sottolineato Lusenti, essa viene meno sia nei sempre meno interessati (e sempre meno istruiti) giovani d’oggi sia in chi, giovane allora, oggi non lo è più.
La vicenda del 12 dicembre però ha un lascito importante ed è termine di paragone per problemi che ancora oggi si possono trovare, diversamente declinati, nell’analisi sociale della stretta attualità. Tra gli spunti lanciati dai relatori: la lentezza della giustizia ed il suo essere intrinsecamente torbida e manipolabile (le stragi di mafia insegnano che su questo non si è fatto che peggiorare); la fallacia di una memoria che, alla luce di altre vicende storiche, è tuttora controversa; l’incapacità politica di dare risposte e, soprattutto, di assumersi le proprie responsabilità di fronte alla storia; il problema di un’informazione che allora era lenta e macchinosa, ma variegata e lucida, mentre oggi è tanto istantanea quanto appiattita, acritica e conformista.

Piazza Fontana ha lasciato un segno indelebile e, anche quando sembra non si possa più dire nulla a riguardo emerge sempre qualcuno che può riallacciare alla bomba la propria biografia, che sia per dire «io c’ero» o per raccontare un aneddoto di famiglia, di scuola o di lavoro che abbia un nodo cruciale in quel luogo così centrale di Milano. Nonostante la memoria sia fallace, la storia ha ricostruito molto e se ad essa si uniscono le tante narrazioni e gli innumerevoli punti di vista collegati alla strage del 12 dicembre 1969 allora si può legittimamente sperare che questa fotografia di capitale importanza sociopolitica non sia lasciata sbiadire. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]

I video di tutti gli interventi e le foto di Beatriz Travieso Pérez.

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