Presentazione di I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti Tra sospensione del diritto e razzismo culturale

«Non parlare di loro ma far parlare loro, siamo ignoranti sulla materia del mondo e, convinti di sapere, ci siamo dimenticati di parlare e vivere con le altre persone». Parole di Renato Curcio, che giovedì 23 maggio all’Arci Xanadù ha presentato il suo libro I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra sospensione del diritto e razzismo culturale.

Lidia Martin della rete Territorio precario, organizzatore della presentazione, ha introdotto la serata, spiegando la tempistica dell’iniziativa che «è in cantiere da un po’ di tempo, ma è giusto proporla oggi: un momento in cui la situazione vede una forte propaganda politica e mediatica a favore dell’insicurezza».
Il mondo del lavoro ha cambiato la sua composizione, alcune strutture contano addirittura l’80 per cento di lavoratori immigrati e in Italia non si considera mai questo dato quando si parla di lavoro. Questo è lo spunto dal quale il gruppo di ricerca guidato da Renato Curcio (nella foto) si è mosso per analizzare nel volume I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra sospensione del diritto e razzismo culturale [Sensibili alle foglie, 2007] i cambiamenti del mondo lavorativo nell’ultimo decennio. L’autore ha voluto sottolineare che sono stati i lavoratori stranieri la prima fonte d’indagine e che per evitare il rischio di trasformare in numeri e percentuali le persone si deve ritornare ad una forma di ricerca che abbia le sue basi nelle narrazioni dirette dei suoi protagonisti, metodo d’analisi sociale già utilizzato in Italia negli anni ’50 e ’60 da Danilo Montaldi (1929 -1975). Nei due anni di studio gli autori hanno raccolto un centinaio di storie di lavoratori provenienti da tutto il mondo e le narrazioni stesse hanno suggerito la direzione da seguire nella ricerca.
La prima questione emersa è il carattere globale del problema. Per analizzare il lavoro migrante, si deve considerare il mondo come un grande teatro sul quale si muovono grosse società, capitali, merci, uomini e donne. Le grandi multinazionali che nutrono, vestono e permettono a noi occidentali di avere il nostro stile di vita, si avventano sul mondo esterno, che è il loro territorio di caccia, per cercare di massimizzare i profitti. Grandi navi-fabbrica spazzano i mari alla ricerca di pesci per alimentare il primo mondo, ma così facendo modificano le condizioni lavorative in uno stato, soffocando le piccole attività, i mestieri e le economie locali. Questo è il fattore che implica la migrazione.
Dal 1982, anno degli accordi di Schengen, sottoscritti dall’Italia solo negli anni ’90, l’Europa si è trincerata in una vera e propria fortezza che divide chi ha i soldi da chi non li ha. Il confine dell’Europa è evidentemente punteggiato di centri di permanenza temporanea (cpt). L’agenzia che per conto dell’Unione europea si occupa di gestire i movimenti di persone attraverso i suoi confini è la Frontex. Questa agisce in base alle congiunture economiche e decide le sorti di tutti i viaggi della speranza, se per esempio una nave della speranza può attraccare in un porto oppure deve finire affondata. Dall’entrata in vigore degli accordi sono stati diecimila i morti accertati. Ma non è finita qui, nonostante l’Onu abbia ammonito tutti gli stati a non usare la parola illegale per definire i lavoratori migranti, le nazioni europee si stano muovendo per creare un database che raccolga le informazioni riguardanti ogni singola persona che attraversi i confini della “fortezza”. Come delle merci, si vorrebbero tracciare gli esseri umani e il metodo univoco per identificarli è la catalogazione del dna.
L’altra triste assurdità è quella dei cpt, luoghi dove i diritti vengono cancellati, che ricordano molto fedelmente i primi campi di concentramento. Dai cpt si esce con decreto di espulsione, ma l’espulso deve, in un giro di parole no-sense, espellersi da solo, cioè farsi carico delle spese di viaggio per il ritorno nel suo stato. Ma l’espulso non ha soldi per pagarsi un viaggio in aereo, in nave o in pullman fino al suo paese d’origine. Inoltre lo stato italiano strappa per altri dieci anni i diritti a questa persona che non dovrà più esistere sul suolo italiano, producendo, di fatto, una sottoclasse di lavoratori senza diritti.
L’orrore è quello della doppia massimizzazione del profitto, sia in Italia con l’impiego di manodopera a basso costo nei lavori non dislocabili come l’edilizia, che nei paesi in via di sviluppo con la disgregazione dell’economia locale.
A condire il tutto e per consentire operazioni di controllo meno invadenti agli occhi dell’opinione pubblica, si utilizza la carta della propaganda dell’insicurezza che ha la doppia valenza di agevolare i controlli sugli stranieri di serie b e di dare ai precari italiani un capro espiatorio su cui far ricadere le cause dei propri problemi.
Secondo Renato Curcio dovremmo «accettare le differenze ed imparare a convivere: le differenze ci sono ma il rapporto deve essere gestito tra pari, con più spontaneismo. La società capitalista ci ha spinto ad una frammentazione e ad una solitudine nel lavoro, nella vita e nella morte, sulle quali il potere stesso vive». [Francesco Vanotti, ecoinformazioni]

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