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Milano/ “Revolution”: rivivere il Sessantotto alla Fabbrica del vapore
Sarà aperta al pubblico fino a mercoledì 4 aprile alla Fabbrica del Vapore di Milano (via G.C. Procaccini 4, M5 Monumentale) Revolution, Musica e ribelli 1966-1970, dai Beatles a Woodstock. Questa grande esposizione – una visita approfondita dura almeno due ore – vuole celebrare la moltitudine di correnti culturali e “controculturali” che hanno segnato un’epoca tumultuosa sotto ogni punto di vista, dai costumi alla politica ai rapporti tra individuo, società e istituzioni. Oltre 500 oggetti e testimonianze sapientemente collocati in sale tematiche ricostruiscono un vero e proprio universo che, non avendo vissuto gli anni Sessanta, è difficile immaginare “condensato” in così pochi anni.
Curata da Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, Revolution è a Milano dal 2 dicembre 2017, dopo il debutto al Victoria and Albert Museum di Londra. Forte l’impostazione britannica e angloamericana della mostra, il cui percorso conduce attraverso la Swinging London, la psichedelia, le contestazioni pacifiste, antirazziste e femministe per arrivare alla Summer of Love della West Coast e di Woodstock: il clou della mostra è rappresentato proprio da un videomontaggio dei Three days of Music, Love and Peace che si svolsero A Bethel, New York, dal 15 al 18 agosto del 1969, con tanto di maxischermo e prato (sintetico) con cuscinoni , che ricrea l’esperienza del festival più leggendario della storia fino a oggi. In una versione diluita, ovviamente: ma questa parentesi “interattiva” della durata di circa dieci minuti ricostruisce di per sé l’incredibile complessità espressiva che segna l’estetica di quegli anni, filtrata attraverso il linguaggio universale e democratico per eccellenza: quello della musica, che è a tutti gli effetti il fondamento di Revolution.
Non è difficile indovinare nel titolo della mostra un omaggio alla canzone dei Beatles (album: The Beatles, 1968) di cui è possibile vedere il testo, scritto in pennarello dalla mano di John Lennon, e un riferimento al clima di generale sovvertimento politico e sociale in atto alla fine dei Sixties, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, segnato e anzi alimentato dalla musica, fosse essa impegnata, sperimentale o pop (a proposito: hanno collaborato all’allestimento di Revolution Alberto Tonti, critico musicale, e Francesco Tomasi, il promoter che introdusse i Pink Floyd al pubblico italiano) . Una buona parte della collezione esposta è costituita da centinaia di copertine dei vinili che hanno arricchito la storia musicale degli anni Sessanta e tutto ciò che ne è seguito, mentre le audioguide fornite in entrata (prezzo compreso nel biglietto, che è di 16 euro a tariffa integrale e di 12 per i soci Arci con tessera in corso di validità) trasmettono, anziché narrazioni didascaliche, una selezione di successi d’epoca che si adattano ai temi di ciascuna sala.
Si va così da Bob Dylan ai The Rolling Stones ai The Who, dai Pink Floyd e Jimi Hendrix a Marvin Gaye e Jacques Brel, passando – semmai fosse il caso di dirlo – dai Beatles, veri e propri profeti di ognuna delle tappe culturali del decennio, non soltanto in senso squisitamente musicale ma anche estetico, comportamentale, “ideologico” in senso lato. Sarebbe erroneo e riduttivo individuare una corrispondenza uno a uno tra la rivoluzione (le rivoluzioni?) e il contributo artistico del quartetto di Liverpool, sia per non fare un torto a nessun altro artista (molti dei quali esplicitamente votati alla protesta), sia perché la parabola di Harrison, Starr, McCartney e Lennon è segnata da continue trasformazioni che sono, simultaneamente, veicolo e sintesi di cambiamenti più ampi in atto negli stessi anni, e che sono ironicamente celebrate dalla copertina del disco sacro della seconda metà degli anni Sessanta, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), in cui i “pettinati” Fab Four degli esordi ammiccano accanto alle quattro copie di sé vestite delle sgargianti uniformi militari che segnarono lo stile del gruppo all’epoca di Sgt.Pepper’s, consacrato dal film di animazione Yellow Submarine (George Dumming, 1968) con cui The Beatles, come molti altri, abbracciavano uno stile di vita “psichedelico”, ispirato a correnti di pensiero orientali o “orientaleggianti” (Buddhismo, Induismo, Hare Krishna) o neopagane (Wicca, New Age) e caratterizzato dall’uso regolare di sostanze stupefacenti in grado di aprire, parafrasando l’omonimo saggio di Aldous Huxley del 1954 (ripreso anche dal gruppo di Jim Morrison) “le porte della percezione”, su tutte l’Lsd, che fu legale nel Regno Unito fino al 1966.
Un periodo storico così “camaleontico” non è però privo di una sua coerenza intrinseca. Un fiorire di controculture che spesso si contamineranno tra loro (ma anche, inevitabilmente, con la cultura allora mainstream), con un bisogno di cesura rispetto a uno status quo ante conservatore, materialista, militarista, maschilista e malcelatamente razzista e omofobo. Attraverso mass media sempre più veloci e diffusi, le “minoranze” – neri, asiatici e latinoamericani, omosessuali -, le femministe della “seconda ondata”, gli studenti, si affacciano al mondo e decidono di mobilitarsi per cambiarlo, denunciando la guerra i soprusi e chi li perpetra, le convenzioni opprimenti e arretrate. Tali forme di denuncia – che saranno anch’esse strettamente interconnesse – passano ovviamente attraverso nuove forme di protesta di massa, dalle marce per la pace ai sit-in universitari ai concerti stessi, come quello di Woodstock in cui le distorsioni della chitarra di Jimi Hendrix a The Star-Spangled Banner risuonavano come sinistri bombardamenti aerei, a monito della guerra in Vietnam allora in corso.
Ma la discontinuità passava anche e innanzitutto dall’abbigliamento, pensato per stupire, per provocare, per far arrabbiare la generazione dei padri e le élites di benpensanti, e la moda (a cui, come è giusto, contribuiscono le case italiane, Missoni su tutte, e che in sede di esposizione è curata da Clara Tosi Pamphili, giornalista e storica della moda) non è di minor importanza, in Revolution, rispetto alla musica e alla stampa, marcando tutte le tappe dalla minigonna di Mary Quant alle casacche ricamate e le pettinature trasandate degli hippies.
I portavoce di questa generazione, fossero essi impegnati o meno in senso politico, incarnano e trainano il cambiamento attraverso l’estetica: si cristallizza il concetto di icona pop (e pop è la parola chiave, poiché la moda e l’eleganza cessano in questi anni di essere un appannaggio dei ricchi o delle donne); nel vestiario come nella musica e nelle arti figurative, si attinge alle tradizioni folkloristiche del “terzo mondo”o delle, ed è interessante notare come oggi il discorso più politically correct rigetti questa tendenza, parlando – non sempre a torto – di “appropriazione culturale” da parte dei bianchi. A proposito di razze e confini, la cultura popolare si fa sempre più “globalizzata”, per come intendiamo il termine ancor oggi. Di pari passo con la critica alla sacralità del matrimonio e della famiglia tradizionale, cominciano a diffondersi le relazioni interetniche, soprattutto, i problemi dei gruppi “altri” (minoranze, popolazioni distanti) o di tutti – ed è il caso della questione ambientale, che trova slancio proprio in questi anni – diventano tema di interesse collettivo. Si fa strada la visione di un mondo senza barriere, senza differenze, in cui chiunque possa connettersi con chiunque senza pregiudizi (lo stesso Steve Jobs paragonerà l’effetto di Internet, “abbattere le barriere tra le persone”, a quello dell’Lsd), come riassume il testo di Imagine, che conclude la mostra come inno riassuntivo di questa densissima epoca, e di chi non smette di credere a questo messaggio.
Revolution riesce a coniugare felicemente l’accuratezza estetica con la ricchezza informativa, in un percorso ampio e intenso, ma anche coerente e scorrevole. L’impostazione anglo-americana a cui si accennava ha favorito una certa “unità aristotelica” in un’esposizione dedicata a una delle micro-epoche più varie (e determinanti) della storia contemporanea, anche se questo ha significato sacrificare la centralità del ruolo del maggio francese e le declinazioni del Sessantotto (in senso lato) in diverse aree del mondo, nella fattispecie in Italia: a tutto ciò si fa un riferimento in sordina; così come si parla delle sommosse dei neri e di altre forme di attivismo: corretto citarle e metterle in relazione le une con le altre, forse però meritavano, prese singolarmente, un approfondimento nel merito, un’impostazione in qualche modo più “policentrica” nel rispetto dello spirito del tempo (quello di allora e anche questo).
Sorge però il dubbio di quale realmente fosse lo spirito del tempo: come per ogni “rivoluzione” condotta dalle masse, risulta difficile tracciare un confine netto valori e moda, etica ed estetica, anticipazione dei tempi e adattamento a essi, autodeterminazione e omologazione (“essere contro è cool, perciò lo farò anch’io”). La mostra condensa questa ambiguità senza avere la pretesa di risolverla, ricordando implicitamente che, al netto del terzomondismo, delle ideologie di ispirazione socialista e orientale, dell’inclusività e delle contaminazioni culturali, il Sessantotto e “dintorni” resta, complessivamente, un fenomeno occidentale, che parla la lingua di Londra, Berkeley e Parigi, guardando al resto del mondo con simpatia e curiosità, ma anche, spesso e non sempre consapevolmente, con la velata condiscendenza di sa, o crede, di stare meglio. Questo, sia chiaro, non è un demerito dei curatori, ma anzi un riflesso di un’asimmetria intrinseca alla globalizzazione. Per ovvio che sia, non ci sarebbe mai stata la mostra Revolution senza essere passati dalla rivoluzione (“questa” e altre) nelle sue diverse accezioni, e non ci sarebbe stata rivoluzione senza dialogo, apertura, condivisione, reale o anche ostentata, di ideali e di costumi. Anche chi non c’era ancora alla fine degli anni Sessanta guarda a Revolution con una certa familiarità, cogliendo analogie e differenze con l’epoca contemporanea, che è costellata di riferimenti alla cultura pop dei decenni precedenti. Come il resto della storia, direbbero The Who, il Sessantotto parla della nostra generazione. E per questo merita di essere conosciuto. [Alida Franchi, ecoinformazioni]