
Emergenza freddezza
Fa freddo, a Como, la sera del 2 aprile. Quest’anno, la primavera si fa aspettare. Puntualissima, in compenso, è arrivata la fine annunciata del programma di accoglienza “invernale”, ampliato nel dicembre scorso con l’installazione di tre tendoni con servizi nel cortile interno del centro Cardinal Ferrari per far fronte anche a una parte delle persone fino ad allora ricoverate – in condizioni di fortuna – all’autosilo Val Mulini. Dopo la notte di Pasqua – quella cioè compresa tra l’1 e il 2 aprile -, la disponibilità del Centro Cardinal Ferrari è stata ridotta ai soli tendoni, così che circa cinquanta persone “senza fissa dimora” si sono trovate nuovamente private di una qualsiasi dimora. Certo, c’è pur sempre la strada: fa freddo, si diceva, e spesso piove (ma per questo, a Como, nessuno è così sfacciato da parlare di emergenza!), ma è questione di settimane e di freddo non si potrà più parlare. Allora altre strutture verranno chiuse, e le persone completamente abbandonate a se stesse saliranno ulteriormente di numero. Al di là delle parole, però, quella che è stata definita “emergenza freddo” è in realtà una strutturale mancanza di accoglienza nel territorio, che di sicuro non si dissolverà con l’arrivo della bella stagione.
Da una parte, una “bella Como”, rappresentata da circa sessanta persone al presidio di Porta Torre Dove andremo a dormire?, organizzato da Como accoglie che ha collaborato alla gestione dei tendoni allestiti al centro Cardinal Ferrari dalla Caritas diocesana con la parziale partecipazione del Comune. Tra gli intervenuti, le associazioni e le reti attive sul territorio, laiche e religiose: queste ultime in particolare non possono far passare inosservato il contrasto stridente tra il messaggio cristiano di solidarietà, perdono, redenzione e la carità a tempo determinato, stagionale, oltre la quale non può, non sa, non vuole spingersi la disponibilità istituzionale all’accoglienza.
Dall’altra parte – da qualche altra parte, certo non a Porta Torre, sera del 2 aprile – le istituzioni stesse, che a parte non attivarsi per l’incombente fine dell'”Emergenza freddo” fornendo soluzioni alternative concrete, procedono anzi in ulteriori restrizioni, nel tempo e nello spazio, di quanto chi non ha una dimora può ancora, per esclusione, fare.
In mezzo “loro”, le persone senza fissa dimora, meno diplomaticamente detti “senzatetto”. Cinquanta in più rispetto alla notte precedente, in attesa di diventare almeno un centinaio tra pochi giorni. Persone private dei loro diritti, indipendentemente dal fatto che siano di origine “locale” o “straniera”. Diritti che, sottolinea Fabio Cani intervenendo come portavoce della rete Como senza frontiere, a cui Como Accoglie aderisce, «cessano di essere tali nel momento in cui smettono di essere per tutti».
Claudio Fontana e Marta Pezzati, volontari di Como accoglie, esprimono l’imbarazzo, il senso di colpa indotto dall’inadempienza – o da un’adempienza temporanea, e comunque fortemente condizionale – da parte delle istituzioni. Un rimorso da cui non sono esenti nemmeno i volontari che si sono invece spesi per prestare aiuto a queste persone, all’autosilo di Val Mulini, al Cardinal Ferrari o per le strade, e che pur non recedendo dal proprio impegno ribadiscono l’insufficienza e l’inadeguatezza di un intervento assistenziale ascritto al solo volontariato. Molte delle persone intervenute al presidio si erano già attivate per aiutare i migranti ai tempi degli accampamenti alla stazione di Como San Giovanni, alla mensa di Sant’Eusebio o all’infopoint in loco. Quasi due anni dopo, appare evidente che la mancanza (o, per essere pignoli, la mancata messa a disposizione) di strutture d’accoglienza è un problema ancor più ampio e trasversale, che colpisce certamente molti migranti sul territorio, ma non solo loro. La mancanza di dimora fissa è un problema condiviso anche da cittadini europei e italiani e anzi la povertà e la precarietà sociale sembrano in aumento, anziché in diminuzione. Motivo di più per insistere nella disponibilità di più, e non certo meno, soluzioni abitative propriamente dette. Un contributo prezioso in tal senso può essere dato dalle parrocchie e dalle istituzioni religiose, già sollecitate dal vescovo della diocesi di Como, mons. Oscar Cantoni, a cui si unisce la richiesta di aiuto da parte dei missionari comboniani, rappresentati al presidio del 2 aprile da padre Piercarlo Mazza. Sempre dal volontariato cattolico – precisamente da Flavio Bogani che era già stato promotore della mensa di Sant’Eusebio – arriva l’invito a un’eloquente forma di protesta: occupare una chiesa, «che è in fondo la casa del popolo, e che deve tornare ad assumere questo significato».
Accanto alla necessità di ovviare tempestivamente a questo vuoto assistenziale, intervenendo personalmente o appellandosi ad altri soggetti, emerge con chiarezza una seconda volontà, non meno urgente e condivisa: quella di esprimere il dissenso e anche – perché no – la rabbia verso la mala gestione della marginalità sul territorio comasco (problema che, peraltro, non è certo un’esclusiva della città). Un sentimento provato innanzitutto dai diretti interessati, ridotti al rango di sub-cittadini o sub-persone, che si trovano bloccati in un circolo vizioso creato ai loro danni: togliere loro il poco che hanno, eroderne i diritti, estendendo i divieti, trovare una scusa per condannarli e poi punirli, togliendo loro qualcos’altro, lasciandoli ancor più emarginati, abbandonati, arrabbiati. E così via. Alcuni degli stessi senzatetto (è intervenuta al presidio l’Associazione italiana senzatetto) esprimono sconforto, esasperazione, insieme alla gratitudine nei confronti di volontari e associazioni attenti a loro.
Questi ultimi, va da sé, non possono che condividere questo scontento. Che non sia ammissibile applicare la strategia della coperta corta a un problema sempre più diffuso e radicato come la marginalità (con tutte le sue degenerazioni, reali o presunte) è palese, eppure accade proprio questo. Non è solo un fatto di risorse materiali, pure necessarie, largamente insufficienti allo stato delle cose. Si tratta per prima cosa di richiamare le istituzioni al dovere di risolvere problemi reali, anziché prevenirne di potenziali (in modo forse meno dispendioso sul breve periodo, ma anche controintuitivo, se non proprio illogico) e soprattutto senza crearne di altri (leggi: “guerra tra poveri”). Si tratta della necessità di coordinazione e visione d’insieme negli interventi d’assistenza, aspetto che una rete così eterogenea di volontari, per quanto efficiente, coesa e generosa, non può gestire in modo completamente autonomo. Si tratta, repetita iuvant, di pura, semplice, eppur non scontata umanità, comun denominatore di base della cittadinanza (dotata o meno di alloggio e impiego stabile, e qui intesa nel suo senso “sociale” più che giuridico) e delle istituzioni, chiamate a rappresentarle nella loro completezza e complessità e ad agire nel loro interesse. Ma in questa città, nonostante la fine di “Emergenza freddo”, si avverte ancora tanto gelo. [Alida Franchi, ecoinformazioni – foto di Alida Franchi e Fabio Cani, ecoinformazioni]
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