Aprire i porti, aprire le frontiere, restare umani


Nella tragedia e nella vergogna che segnano la mancata accettazione dell’Aquarius nei porti italiani, è di qualche conforto prendere atto che qualche persona in più alzi la testa e dichiari: «È troppo». Al presidio Aprite i porti, aprite le porte indetto dalla rete Como senza frontiere per le 18 di martedì 12 giugno in piazza Boldoni, erano infatti presenti più di cento persone, nonostante un preavviso inevitabilmente scarso (il caso risaliva ad appena due giorni prima) e nonostante le condizioni meteorologiche decisamente avverse. Tra loro, molte hanno preso la parola, a titolo personale oppure a nome delle realtà rappresentate, per protestare una decisione che sì, è prodotto di una politica malevola, astuta (secondo i propri parametri) nel breve periodo, ma fondamentalmente miope e ottusa; intanto, dietro a questa decisione, peraltro portata in palmo di mano dal suo principale promotore come una “vittoria”  (o meglio, come una VITTORIA: il ministro degli interni, è noto, ama indulgere nel maiuscolo esclamativo degli slogan brevi e viscerali),  non è difficile cogliere l’ombra di una profonda, distruttiva cattiveria.
Si avverte un senso di imbarazzo, di umiliazione condivisi, nel dover elencare tutti i motivi per cui la “vittoriosa” decisione di Salvini et alia è sbagliata, dal punto di vista etico (oltre che logico e perfino pragmatico: sperava forse il ministro degli Interni di mettere fine alle traversate, all’intero business dello scafismo? Ci sentiamo “al sicuro”, ora? Ci sentiamo sgravati da quelle 629 persone rifiutate?) e da quello, più formale, del diritto, inteso a più livelli, a cominciare da quello umano, universale.


Se anche l’analogo rifiuto opposto dal governo maltese è riprovevole, lo “scaricabarile” trasversale in atto negli Stati comunitari – Italia compresa – sembrerebbe paradossale, se non disponesse per il consumarsi di sempre più tragedie, reali o potenziali. Non fosse stato per la disponibilità  ad accogliere l’Aquarius nel porto di Valencia del governo spagnolo, non si può escludere che quello italiano si sarebbe macchiato di corresponsabilità in un crimine contro l’umanità di proporzioni che vorremmo definire “anacronistiche”, non fosse per tutti i naufragi occorsi nel Mediterraneo negli ultimissimi anni.
In altre parole: il caso Aquarius spaventa per le sue proporzioni, per la sua manifesta crudeltà, ma non rappresenta, nel suo potenziale catastrofico, un caso isolato, né retrospettivamente né in prospettiva; a meno di non prendere e mantenere una decisa posizione contro questi attacchi frontali ai diritti che ogni Stato o comunità democratica sono chiamati, per definizione, a rispettare. «Bisogna ribadire che tutto questo non avviene “in nostro nome”», sottolinea Fabio Cani come portavoce della rete Como senza frontiere, rivolgendosi ai presenti ma riferendosi, per esteso, a tutta la popolazione che guarda a questa governance migratoria con disgusto e preoccupazione, invitando i presenti a partecipare alle future iniziative organizzate o promosse dalla rete. “Quest’altra” Italia, forse piccola (in senso almeno relativo), forse distinta dalla base di questo ennesimo establishment xenofobo (che si definisce “europeo” e/o “cristiano” secondo convenienza), c’è, e resiste, deve resistere, continuando e anzi rilanciando il proprio operato nei confronti di chi sta peggio (a prescindere dalle sue origini), senza aver paura di chiamare le cose e le persone con il loro nome.


Anche tra chi si oppone alla minaccia di questo “nuovo ordine”, comunque, è impossibile non provare almeno un po’ di vergogna a nome dei suoi promotori e sostenitori (chissà se qualcuno di loro, a insaputa di tutti, condivide questo sentimento). Non è onesto dimenticare che il precedente governo a maggioranza Pd ha contribuito a crearne le basi, e che la sinistra in generale, in fase elettorale, non è stata in grado di fare leva sulla sensibilità collettiva. Del presidio, colpisce, forse più di ogni altro, l’intenso, schietto intervento di una manifestante di origini ruandesi: «La mia storia è diversa, ma io qui, oggi, non mi sento al sicuro. Queste persone non arrivano qui come turisti, arrivano perché hanno bisogno di protezione. È davvero triste che in un paese in cui si crede tanto in Gesù, che era un rifugiato, si dicano e si scrivano frasi così disumane. E questa cultura dell’impunità è sbagliata, pericolosa: prepara al genocidio, una realtà che conosco.  So che ci sono anche persone che si oppongono a questo corso, ma l’Europa deve prendersi le sue responsabilità, anziché creare le basi per le guerre combattute in Africa. ». [Alida Franchi, ecoinformazioni] [foto di Claudio Fontana per ecoinformazioni]
Presto on line sul canale di ecoinformazioni i video di Alida Franchi della manifestazione

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