
Sull’orlo del cratere/ Pandemie
La danza tra uomini e scheletri è una metafora della caducità della vita che ha avuto una certa fortuna nel tardo medioevo e soprattutto dopo le grandi pestilenze, prima tra tutte quella europea manifestatasi tra il 1346 e il 1352. L’arte figurativa pittorica e quella scultorea hanno raffigurato la danza macabra nei luoghi sacri e nei cimiteri (intorno al 1424 fu dipinta quella degli Innocenti a Parigi, che è la più antica e famosa), con il preciso significato morale del memento mori, non dimenticare che la vita è breve, ciò che da secoli si ricordavano i monaci certosini di clausura ogni volta che si incontravano; ma i certosini sono stati anche i più raffinati conoscitori della natura e hanno saputo nel tempo costruire un rapporto equilibrato con essa.
Diverso è il destino di noi comuni mortali che abbiamo contribuito, soprattutto negli ultimi tre secoli, a modificare le regole e i cicli naturali, considerando la natura un elemento del paesaggio o merce spendibile e gli animali una funzione strumentale necessaria ai cicli lavorativi, all’alimentazione, allo svago.
Così come il mondo non è semplice estensione umana, né una collezione di oggetti, allo stesso modo tra uomo e animale non c’è una differenza di natura, ma di grado: «ciò che rende umano l’uomo è solo l’intensità della sensazione e dell’esperienza, la forza e l’efficacia delle immagini sulla nostra vita» ci ricorda Emanuele Coccia nel bel libro La vita sensibile. Nonostante questa evidenza sensibile, abbiamo dimenticato alcune regole fondamentali: siamo in transito e la terra l’abbiamo in prestito dalle generazioni future, la convivenza con gli altri animali non può seguire la logica utilitaristica, chi ci ha prodotto il mondo così come lo conosciamo sono le piante attraverso la fotosintesi, viviamo in simbiosi con batteri, virus e funghi, che nel nostro corpo sono più numerosi delle cellule. Questi microorganismi hanno la funzione di formare ecosistemi completi o di causare malattie, ma sono anche responsabili del buon funzionamento della nostra fisiologia e della buona salute in generale. Una alterazione di questo equilibrio nel nostro corpo genera malattie, epidemie e morte, nella natura un diverso processo di adattamento. La storia dell’uomo, così come quella degli altri animali, è caratterizzata da decine di epidemie e pandemie causate da virus ignoti, e da altri che abbiamo imparato a conoscere molto bene, che hanno cambiato il corso della storia. Nell’ultimo secolo in particolare le pandemie si sono ciclicamente presentate, ma pare si sia diffusa una falsa sensazione di sicurezza data dalla farmacologia moderna e dalla fiducia quasi fideistica nella scienza. Si tratta di un errore perché gli incessanti movimenti di merci e di persone attraverso l’intero pianeta ne aumentano il rischio.
Le pandemie influenzali riconosciute come tali dell’ultimo secolo sono state quattro: nel 1918-1920 la Spagnola, nel 1957-1958 l’Asiatica, nel 1968 la Hong Kong, a partire dal 2019 il Covid-19. Sebbene non classificate come pandemie, tre importanti epidemie influenzali si verificarono anche nel 1947, nel 1976 e nel 1977. La Spagnola colpì un terzo della popolazione mondiale con un tasso di mortalità del 2,5% e circa 50 milioni di decessi, secondo gli ultimi studi del medico e storico tedesco Jurgen Muller. Si è visto che i discendenti di questo virus circolano ancora oggi nei maiali. Forse hanno continuato a circolare anche tra gli esseri umani, causando epidemie stagionali fino agli anni ’50, quando si fece strada il nuovo ceppo pandemico che diede luogo all’Asiatica del 1957 e che causò la morte di 2 milioni di persone. Questa influenza provocò il fenomeno di polmoniti primariamente virali e, in contrasto a quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone affette da malattie croniche e meno colpiti furono i soggetti sani. Il virus dell’Asiatica era quindi destinato ad una breve permanenza tra gli esseri umani e scomparve dopo soli 11 anni, soppiantato dal sottotipo chiamato Hong Kong. Anche in questo caso l’influenza arrivò dal sud est asiatico e si diffuse soprattutto negli Stati Uniti proprio nel 1968, attraverso i militari che tornavano dalla guerra del Vietnam, causando 100.000 morti nel paese e 2 milioni di morti nel mondo, di cui 20.000 in Italia. Una curiosità riguarda il festival della musica di Woodstock dell’estate 1969 che si svolse in piena pandemia; un milione di giovani partecipò all’evento che ovviamente si svolse senza distanziamenti e precauzioni, ma la fortuna di quei giovani fu quella che il virus risultò letale soltanto per gli ultra sessantenni. L’ultima pandemia influenzale, quella da Covid-19 è ancora attiva, ma le parole non sono ancora pronte per raccontare ciò che stiamo vivendo.
Una delle più gravi e più recenti pandemie conosciute dalla società odierna, non di origine influenzale, è quella del virus dell’immunodeficienza umana, l’HIV, meglio noto come Aids. I primi casi documentati sono apparsi nel 1981, e da allora il virus, probabilmente di origine animale, si è diffuso in tutto il mondo. Di per sé il virus non è attualmente letale, anche se nei primi anni lo è stato, ma i suoi effetti contemplano l’indebolimento del sistema immunitario lasciando l’organismo indifeso di fronte ad altre malattie. Il suo contagio avviene per contatto con fluidi corporei, ma anche se queste vie di trasmissione lo rendono meno contagioso, a priori, rispetto ad altri virus come l’influenza, l’ignoranza iniziale ha permesso che si diffondesse molto rapidamente. Si stima che l’HIV abbia causato circa 25 milioni di morti in tutto il mondo.
Se a queste pandemie aggiungiamo le malattie e le morti causate dal cibo infetto da batteri, virus, parassiti, tossine e inquinanti arriviamo a 600 milioni di malati e 420mila morti ogni anno a livello globale secondo l’Organizzazione Mondiale della sanità. Tutto questo senza considerare epidemie che hanno avuto una rilevanza territoriale, e non mondiale come Ebola, endemica in alcuni paesi del centro Africa, o come la pseudo pandemia del 1946-1947 diffusa in Giappone, in Corea e nelle basi americane di questi paesi, o come la Russa del 1977, diffusa nel nord della Cina al confine con la Russia e che colpì soprattutto i giovani con meno di 25 anni.
Nel nuovo millennio il primo allarme mondiale è scattato nel 2003 per la Sars, acronimo di “Sindrome acuta respiratoria grave”, una forma atipica di polmonite apparsa per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong in Cina. In un anno la Sars uccise 800 persone, tra cui il medico italiano Carlo Urbani, il primo a identificare il virus che lo ha poi stroncato. Venne classificata come epidemia e non come pandemia. Risale invece al 2009 l’impropriamente detta “influenza suina”, causato da un virus che si è manifestato per la prima volta in Messico. Enorme l’allarme anche in Italia, dove furono oltre un milione e mezzo le persone contagiate. La paura rientrò quando fu chiaro che il tasso di mortalità era inferiore anche a quello della normale influenza.
Un altro capitolo è quello dei decessi per le normali influenze invernali che secondo i dati dell’Oms arrivano a 650mila ogni anno nel mondo.
Ma cosa hanno in comune queste epidemie che in un secolo hanno causato più di 300milioni di morti in tutto il mondo (cifra superiore a quella dei morti nelle guerre del ‘900) e soprattutto nei luoghi più poveri? La maggior parte delle pandemie hanno un’origine animale, sono, cioè, delle zoonosi, ad evidenziare che il salto di specie è possibile. In alcuni casi nascono dalla stretta convivenza tra persone e animali da allevamento e sono poi favorite dai grandi agglomerati urbani con elevata densità abitativa. Altre epidemie, invece, sono state determinate dalla colonizzazione e dalla conquista di nuovi territori: virus e batteri sconosciuti ai sistemi immunitari delle popolazioni autoctone hanno causato vere e proprie stragi. Queste malattie epidemiche vengono classificate dagli scienziati in quattro famiglie a cui dobbiamo aggiungere una quinta famiglia figlia del nostro tempo: la liberazione di antichissimi virus e batteri che lo scioglimento del permafrost sta causando e i cui effetti sono totalmente sconosciuti.
La letteratura ha fatto proprie queste paure e questi drammi, in una prospettiva laica o religiosa, e ha letto questi fenomeni come metafore esistenziali, oppure ci ha ricordato l’importanza della solidarietà, affermato il valore della vita, criticato la decadenza dei costumi e dei valori, stigmatizzato la crudeltà umana.
Stiamo ballando sull’orlo del cratere, in un eterno presente immaginario che non riesce a progettare il futuro, mentre la terra, che segue sue leggi, tempi e cicli, ci sta presentando il conto delle nostre scelte economiche e politiche, dei nostri stili di mobilità, di consumo e di vita. Forse siamo noi il virus più letale di questo pianeta, come ricordava Primo Levi, ma poi guardiamo l’arte figurativa, ascoltiamo capolavori musicali, leggiamo poesie emozionanti, piangiamo davanti a paesaggi mozzafiato e per un attimo ci illudiamo che la speranza non può morire. Allora, per tornare con i piedi per terra, meglio ricordare un vecchio detto che, prima dei certosini, i generali romani pronunciavano quando tornavano da una campagna bellica: sfilando nelle strade i soldati raccoglievano gli onori che venivano loro tributati dalla folla, correndo il rischio di essere sopraffatti dalla superbia e dalle manie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse qualcuno, alle spalle, pronunciava la frase: «Respice post te. Hominem te memento» [Guarda dietro a te. Ricordati che sei un uomo]. [Marco Lorenzini, ecoinformazioni]