
Geografie musicali/ The Good Ones/ Rwanda, you should be loved

La musica è un linguaggio universale, in grado di trasmettere emozioni da chi la suona a chi la ascolta. Questo non significa però che la vita di chi compone in Africa sia facile come quella di noi occidentali. Per capire dove sta la dicotomia prendiamo Rwanda, you should be loved, del trio dei ruandesi The Good Ones.
Una musica semplicissima e delicata, una sorta di country-folk che dipende strettamente dal territorio in cui è stato composto. Una frase simile descrive solo una piccola percentuale di Rwanda, you should be loved, disco dello scorso anno dei ruandesi The Good Ones, che vanta ospiti speciali di tutto rispetto, da Kevin Shields dei My Bloody Valentine (famoso combo irlandese considerato tra gli inventori dello shoegaze, il rock “sognante ed etereo”) a Joe Lally dei Fugazi (gruppo post-hardcore statunitense che ha fatto della dissonanza e della sperimentazione una bandiera contro il punk “istituzionale”).
La domanda da farsi, però, è semplice: come ha fatto un trio folk rwandiano a finire in tourneé negli Stati Uniti nel 2019? Merito del produttore televisivo e musicale Ian Brennan, già famoso oltre che per le opere di sua produzione anche per aver scoperto band come i Tinariwen (che sono stati ospitati in concerto anche al Teatro Sociale di Como, leggi l’articolo di Fabio Cani), che li ha incontrati durante un viaggio nel 2009 nel paese africano con la collega e moglie Marilena Delli, italo-ruandiana.
I The Good Ones sono tre uomini: Adrien Kazigira (voce e chitarra), Janvier Havugimana (voce, chitarra e percussioni) e Javan Mahoro (voce e percussioni). Adrien, il “leader” della band, ha ereditato la fattoria di famiglia dove ha vissuto tutta la sua vita. La band nasce nel 1978, quando sono ancora tutti bambini: è il fratello maggiore di Janvier, che purtroppo morirà nel genocidio nel 1994, a insegnargli la musica.
Le canzoni sono semplici ed essenziali, basate sulla vocalità di Adrien e Janvier: un mix musicale che risente fortemente del dialetto parlato nella zona. Molte delle quattordici tracce che compongono l’album sono dedicate alla moglie scomparsa di Adrien e a sua figlia Marie-Claire, appena guarita da un tumore. Canzoni di ringraziamento verso la vita, sia nelle avversità che nelle gioie, composte solo con chitarra e percussioni improvvisate, con l’intervento degli ospiti internazionali in inserti di pianoforte e altri strumenti. Ian Brennan è riuscito anche nella difficile impresa di far registrare i tre direttamente nella fattoria di Adrien, con il risultato che il nucleo delle canzoni del trio, l’atmosfera, è rimasto intatto. Un’operazione, quasi, di antropologia musicale, perché il modo di comporre e suonare dei The Good Ones non è per nulla influenzato dal mondo esterno: è uno stile che esiste solo in quel fazzoletto di terra, in quell’angolo di mondo, anche perché per un rwandese di quelle zone è difficile poter ascoltare musica occidentale.
Da sottolineare che la band si è riunita dopo il genocidio del 1994 con un membro di ogni tribù (un Hutu, un Tutsi e un Abatwa), proprio come gesto di distensione e pace: per cercare “quei buoni” (traduzione letterale del nome della band) sopravvissuti all’orrore e al massacro. Nel 2010 il loro primo album li ha portati ad avere una buona fama internazionale, nove anni dopo, data simbolica anche per l’anniversario del genocidio, The Good Ones si sono presentati al pubblico con persino una tourneé negli Stati Uniti, per portare un messaggio di Pace e speranza.
Per rispondere alla domanda all’inizio di questa breve geografia musicale: forse è una prerogativa essenziale, per quello stile chiamato “World Music”, andare a cercare artisti che siano stati il meno possibile contaminati dalla cultura occidentale, o che riescano a mescolare cultura africana e altri stili in un modo originale e differente. Nel caso di The Good Ones, però, non è solo questo: ogni canzone è scritta con un preciso intento e si sente, tanto che le vocalità sembrano più poesie che forme-canzone. Probabilmente è questo da renderli talmente particolari e differenti da tanti altri “colleghi”, cosa che gli ha permesso di stare nella Anti-, la stessa etichetta di Tom Waits, Ben Harper e dei Deafheaven ( sito ufficiale della casa discografica). Parole e armonie che arrivano da un mondo dove “La vita è dura” (è il titolo di una delle canzoni del disco), dove la denutrizione non è da sottovalutare: un mondo che sembra lontanissimo ma che nel globo globalizzato stride ancora di più con lo stile di vita occidentale. Rwuanda, you should be loved, è una carezza musicale, ma anche un monito che ci ricorda una delle pagine più tristi della storia africana e ci invita a fare in modo che non ci siano popoli della Terra di cui potersi dimenticare. [Dario Onofrio, ecoinformazioni]
Potete ascoltare e acquistare l’album in digitale tramite Bandcamp cliccando qui.