Nelle spire del serpente

Uno striscione rosa, un serpente che si snoda tra i porticati di largo Miglio, davanti porta Torre, a Como, riportando sul proprio corpo ondulato nomi di donne, racconti di violenze e abusi, e un grido – «Ci vogliamo vive, ci vogliamo libere». Così comincia il flash-mob ideato dal collettivo Non una di meno per sensibilizzare la cittadinanza (che transita più o meno frettolosa, più o meno incuriosita) sul tema della violenza contro le donne, di cui il 25 novembre è ogni anno triste monito.

Sotto un cielo cupo, le donne e gli uomini del collettivo, dei sindacati, delle associazioni e dei partiti intervenute a sostegno dell’iniziativa si dispiegano, distanziati, per tutta la piazza. Voci di donne si alzano a turno, dietro la mascherina rossa, per raccontare di molestie, violenza fisica e mentale, abusi e della vergogna (introiettata a causa di un distorto senso di colpa colato attraverso intere generazioni), che zittisce più di mille bavagli.
Non importa quale sia l’età, l’estrazione sociale, la situazione contingente: molte, moltissime (forse, quasi tutte) sanno cosa vuol dire sperimentare la stretta di quel serpente, soffocando tra le spire di una forza bruta che per troppo tempo ha agito indisturbata, riparata nelle pieghe di una società negligente, sempre troppo pronta a voltarsi di lato, a rivoltarsi contro le vittime, additandole come deboli, pazze, provocatrici, streghe, puttane, sconsiderate, scostumate, molli, incapaci.

Eppure le donne, come quelle che sorreggono lo striscione o scandiscono con voce sorda tutte «quelle volte che» hanno dovuto confrontarsi con chi le voleva succubi, rivendicano il diritto di essere viste e ascoltate: così il serpente muta la pelle e da animale letale diventa un simbolo ancestrale di sorellanza e solidarietà, capace di raccogliere tra le proprie scaglie le esperienze di ciascuna, di ciascuno, rendendole parte di un unico flusso di (auto)coscienza. Parlando, confrontandosi, insegnando un rispetto ancora troppo da imparare, stando in piedi, senza cedere neanche di un passo davanti a chi vorrebbe solo proscinesi: ecco come esso può diventare forza impetuosa in grado di scardinare chiuse, dighe e argini, filtrando anche nei recessi più remoti.

Forse però le denunce, i processi, le urla di rabbia, i lividi mostrati, i nervi a pezzi, le crisi di panico, le ossa rotte, il sangue asciugato di nascosto, gli insulti, le minacce e le lotte affrontate ogni sacrosanto giorno ancora non bastano: se infatti le istituzioni decidono di mettere in piedi per l’occasione una campagna (sintetizzata in alcuni opuscoli distribuiti poco più in là nella piazza da una delegazione della polizia) che recita «Aiutiamo le donne a difendersi», vuol dire che la strada da percorre è ancora lunga e – purtroppo – lastricata di sangue.
Finché si porrà l’accento sulla difesa si continuerà a legittimare l’esistenza stessa della violenza, senza andare ad intaccare quel nucleo, velenoso e corrosivo, in cui retaggi patriarcali e modi all’avanguardia di sopraffare brutalmente una donna (assegnata tale alla nascita o meno) si raggrumano, continuando ad avvelenare il vissuto di tutte, di tutti come la peggiore delle scorie. Per carità: è importante vedere nel proliferare di numeri di telefono, statistiche e programmi ed uffici antiviolenza ad hoc una nuova consapevolezza istituzionale, ma perché, invece di curare e assistere dopo, non si agisce in maniera decisa e radicale prima?

Insegniamo agli uomini il rifiuto, la negazione non come segnale di inasprimento della caccia o ostacolo da sopraffare a qualsiasi costo. Insegniamo alle donne a dire «No» con voce piena, forte, sapendo di essere ascoltate.
Educhiamo gli uomini a non spogliare – nè con gli occhi, né con le mani – la dignità di altri corpi. Educhiamo le donne a spogliarsi, restituendo la necessaria normalità al proprio essere nude, uniche detentrici di inviolabile dignità.
Insegniamo agli uomini a riconoscere i meccanismi infernali di una relazione tossica, insegniamo loro che la tossicità di un abuso non nuoce solo su chi viene compiuto, ma devasta silente anche chi la perpetra. Insegniamo alle donne a riconoscere le forme e i pericoli della tagliola prima che si richiuda su di loro, costringendole ad amputarsi brandelli di vita per salvarsi.
Educhiamo gli uomini al rispetto reciproco, a quanto pesano davvero le minacce e gli insulti, a quanto facciano male i ricatti, o le domande fatte solo con l’intenzione di creare imbarazzo (e insicurezza) in un’assurda, perversa fascinazione per il potere. Educhiamo le donne al diritto di rilassare le spalle, di non rispondere, di tirarsi indietro, di muoversi liberamente – a casa, tra i banchi di scuola, nelle vie buie d’inverno e nei giardini d’estate, nelle proprie famiglie, in qualsiasi ambiente di lavoro, nelle serate con gli amici, nell’intimità di una relazione.
Insegniamo agli uomini e alle donne l’utilizzo della rete come strumento di dialogo e formazione reciproca e universale, formando un substrato fertile in cui poter convivere senza che questo diventi riserva di caccia. [Articolo, foto e video di Sara Sostini]

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