Una città smemorata: la Ticosa

Il 27 gennaio 2007, esattamente quindici anni fa, ricorreva, come oggi, la Giornata della Memoria. La legge istitutiva, infatti, risale all’anno 2000. Ma il Comune di Como se ne dimenticò e preferì, piuttosto, festeggiare, con frizzi, lazzi, fuochi d’artificio e autorità, l’inizio dei lavori di demolizione di ciò che restava della Ticosa, ovvero della Tintoria Comense, che era stata la fabbrica più imponente della città, vero simbolo del lavoro industriale lariano.

Quella dimenticanza fu tanto più insopportabile perché proprio dalla Tintoria Comense, a seguito degli scioperi del marzo del 1944, sei maestranze, quattro uomini e due donne, finirono per ordine del capo della Provincia fascista nei lager nazisti. Dei quattro uomini, uno solo tornò, ma con un fisico talmente debilitato da morirne poco dopo; le due donne, invece, riuscirono a sopravvivere a quella tremenda esperienza, e furono così – Ada Borgomainero e Ines Figini – due testimoni che quasi fecero da staffetta – prima Ada, poi Ines – per non far morire la memoria di quei fatti.

Ma evidentemente il Comune di Como non se ne ricordava, perché quel giorno preferì far festa.

Del resto, quella smemoratezza, esibita proprio nel momento cruciale di quella fase che si proclamava “conclusiva” della lunga vicenda della Ticosa (una conclusione avventatamente attacchinata persino su tutti i muri della città), era il giusto sigillo per quella vicenda che – indifferente a tutto quanto era successo prima, succedeva allora e sarebbe successo poi – se ne guardava bene dal terminare e anzi prosegue, imperterrita, tuttora.

Peggio: a quella smemoratezza la città intera, col tempo, si è assuefatta. Ha dimenticato cosa ha significato quella fabbrica dal punto di vista del lavoro (in bene e in male: dal punto di vista della ricchezza, e dal punto di vista delle lotte), ha dimenticato cosa hanno significato quei luoghi come scenari di tante vite diverse (lavoratrici e lavoratori, certo, ma poi anche migranti, “extracomunitari”, disperati di ogni genere e provenienza), ha dimenticato cosa potrebbe significare quell’area per il futuro della città (per la sua ampiezza, per la sua centralità, per la sua disponibilità a tante possibili funzioni).

Così, ogni volta il dibattito (se così lo si può chiamare…) ricomincia da zero. Dimentico delle promesse fatte e mai realizzate, dimentico degli errori, dimentico delle proposte. Ricomincia da zero, terra terra: da quel terreno che continuamente si ripropone come possibile parcheggio. Un bel manto d’asfalto e via.

E allora quella giornata della smemoratezza di quindici anni fa è proprio il simbolo più adeguato (non certo il migliore) per una città che dimentica tutto, compresa se stessa. [Fabio Cani, ecoinformazioni]

N.B. La fotografia di quel gennaio di quindici anni fa è opera di Gin Angri, che dal 1980 a oggi non ha mai dimenticato di documentare i tanti aspetti di quel pezzo di città e delle persone che l’hanno attraversato.

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