Voce di tante voci, da e per l’Iran in lotta

Diventare la voce di un popolo intero è un’azione insieme potente e pesante, perchè richiede tutte le energie a disposizione, senza possibilità di resa o riposo, per raccontare quelle voci (flebili sussurri, grida altissime) che si scontrano con la barriera del silenzio colpevole e dolosa di un regime spietato e vigliacco.
Masih Alinejad, attivista iraniana in esilio volontario (e oggi sotto protezione) negli Stati Uniti, si è data questa missione: raccogliere e diffondere attraverso i propri canali social e in televisione le voci di tantissime donne e di tantissimi uomini che lottano per disintegrare la morsa oppressiva con cui il regime teocratico stritola l’Iran da anni, mettendo in gioco la propria vita (pubblica e privata) accanto alla loro. La regista iraniana naturalizzata svedese Nahid Persson ne ha raccontato la storia in un docufilm intenso, Be My Voice.

Il film, proposto da Arci nazionale e Ucca, è stato protagonista dell’iniziativa, organizzata giovedì 9 marzo allo spazio Gloria da Arci Como con Arci Xanadù, Arci ecoinformazioni e donne in nero, a conclusione del calendario condiviso della rete Intrecciat3 verso e per l’8 marzo.

È difficile arrivare ai titoli di coda incolumi: ciascun fotogramma rimane impresso sul fondo delle retine.
Masih Alinejad vive a velocità folli, destreggiandosi tra telefoni, computer e collegamenti televisivi; non prende mai fiato, impegnata in un dialogo reciproco e costante con migliaia di persone in Iran e fuori da esso per tenersi in contatto con chi le ha chiesto di diffondere le proprie azioni dissidenti e la propria voce fuori dal bavaglio della censura, in un j’accuse inflessibile che né le minacce di morte per lei, né quelle alla sua famiglia riescono a smorzare. Passa da una gioia spumeggiante e contagiosa ad uno sconforto annichilente nel giro di poche scene, ma è il rollio vertiginoso dato dalla velocità delle comunicazioni istantanee dei social network a dettare – purtroppo – le maree emozionali: una ragazza in più riesce a parlare, correndo e sventolando l’hijab in un gesto liberatorio mentre si fa un video mosso e sgranato, una ragazza in più viene arrestata insieme a chi le dà supporto, percossa, frustata e spesso uccisa.

Nahid Parsson la segue come può, ma è difficile correre come fa la donna con il fiore nei capelli riccissimi: una corsa cominciata tanti anni fa in un progressivo cammino di coscienza, autocoscienza ed emancipazione da regole barbare, emanazioni di un patriarcato ipocrita che ricerca santità, rigore e compostezza, ma solo in chi sottomette ferocemente. Un figlio, un divorzio, un esilio, un libro (Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran, edizioni Nessun Dogma-Uaar, 2021) e qualche video in diretta dopo, Masih Alinejad sceglie – spinta dal gesto potente di una ragazza che sventola il velo – di impegnarsi perché il vento arrivi davvero a passare nei capelli delle donne del suo paese, sostenendo con il proprio lavoro di giornalista e attivista il suo popolo.
In diverse migliaia la seguono, richiedono la sua attenzione costante, il suo affetto spontaneo e la sua rabbia affilata quando semplici gesti normali altrove vengono repressi e affogati nel sangue; altrettante migliaia la sbeffeggiano, la minacciano, cercano di spezzarla strappandole la famiglia (costretta a prendere pubblicamente le distanze) e un fratello in particolare, l’unico che sceglie di sostenerla attivamente e che viene arrestato per questo.

Masih Alinejad e Nahid Persson

La regista iraniana accompagna la sua conterranea nei chiaroscuri accesi della sua vita: il sorriso pieno mentre si prende cura del suo giardino («ho piantato un albero per ciascuna persona della mia famiglia, sono lontani ma mi sento a casa», «sento il profumo del basilico e mi sembra di essere di nuovo in Iran»), la gioia vitale mentre canta sotto la pioggia, l’affetto e la cura mutuali e premurose del compagno e delle amicizie; l’orrore della polizia che spara sui manifestanti nel 2019 durante le proteste per l’aumento del prezzo della benzina (mai circoscritte solo a quello, ovviamente), i perfidi, meschini video mandati da sedicenti uomini iraniani per spaventarla (o almeno, provarci), i nomi senza volto, i volti senza nome di chi viene inghiottito dalle carceri iraniane, dalle camionette della polizia, dalle percosse criminali.
Attraverso l’irruenta vitalità, i nervi d’acciaio spesso provati, la determinazione spesso più forte dello sconforto e la stanchezza, si radica il peso di tante e tanti: «non puoi arrenderti, perchè sei la mia voce».

Una delle foto arrivate a Masih Alinejad: donne che si liberano dell’hijab

E Masih Alinejad sceglie ogni volta di continuare, sfidando la Repubblica islamica dell’Iran, i governi di mezzo mondo, i suoi stessi sentimenti e i propri limiti fisici e mentali; lo fa insieme a Nahid Parsson in questo film: «per la mia famiglia, il mio popolo e per me». Non per vocazione al martirio, o schiavitù da mass media, ma perchè profondamente parte della terra d’origine nonostante l’esilio, tenacemente innamorate delle proprie radici, determinate a tornare in un paese libero e democratico, prima o poi.
Lasciano a spettatori e spettatrici la responsabilità di quanto visto, ascoltato – e allo spazio Gloria l’abbiamo sentita, tutte e tutti, per intero: una denuncia devastante davanti cui coprirsi gli occhi è impossibile, una testimonianza che ci ancora nel mondo chiedendo di venire ascoltata, praticata e diffusa, ma anche un esempio luminoso di forza femminile e femminista e lotta per i diritti di un mondo migliore per tutte, tutti. Doloroso, impegnativo ma energico, potente.
Chiudere un periodo intenso di lavori, dialoghi, iniziative, manifestazioni per la Giornata internazionale della donna con queste due donne in lotta vuol dire aprire ferite, svegliare coscienze, raccogliere le energie e continuare instancabili accanto a loro, come si può. [Sara Sostini, ecoinformazioni]

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