Liberi dalla mafia

L’introduzione al convegno è stata affidata a Michele Tortora, prefetto di Como, che ha sottolineato il lavoro egregio delle forze dell’ordine che, negli ultimi 2 anni, hanno arrestato ventitré dei trenta latitanti più pericolosi in Italia.
A seguire il questore di Como Massimo Mazza ha osservato come la cultura della legalità sia il primo muro da opporre alla criminalità organizzata sollecitando i ragazzi presenti al rispetto verso tutti, dai compagni di classe alle istituzioni, tenendo sempre comportamenti responsabili e opponendosi all’uso della violenza e dell’arroganza.
L’assessore provinciale all’Istruzione Achille Mojoli ha illustrato il progetto Etica per la vita, che coinvolge le scuole e le società sportive partendo dal contrasto di fenomeni di bullismo e di prepotenza.
L’ultimo intervento introduttivo è stato quello della dirigente scolastica dell’Itc Caio Plinio Madga Zanon che, dopo la lettura della lettera del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha spiegato come il convegno fosse una tappa di un percorso che ha compreso un viaggio d’istruzione a Palermo e la simulazione di un processo di mafia a Como in presenza di Salvatore Borsellino, che è stato il primo relatore ad intervenire.
«Io sono qui perché voglio provocare in voi rabbia e indignazione». Questa la frase che il fratello del giudice ucciso il diciannove luglio 1992 ha pronunciato con la voce spezzata dall’emozione e ringraziando i ragazzi del Caio Plinio per l’affetto enorme dimostratogli. Tra le mani stringeva l’agenda rossa di Paolo Borsellino, simbolo della battaglia di verità e giustizia che da anni combatte assieme alla sua famiglia: «Da quarant’anni sono andato via da Palermo, sono fuggito credendo che fosse la soluzione giusta, ma da quel giorno del 1992 mi sono ritrovato sulle spalle tutto ciò da cui ero scappato».
«Dopo diciassette anni rimangono ancora troppe ombre sui mandanti di quella strage mafiosa – ha denunciato Borsellino raccontando quel giorno in via D’Amelio -: pentiti come Mutolo hanno parlato anche di magistrati, servizi segreti e forze dell’ordine coinvolti».
E poi il mistero dell’agenda rossa sulla quale Paolo annotava ogni sera i suoi pensieri e da cui non si separava mai. Anche il diciannove luglio l’aveva con sé nella sua valigia, ma un uomo appena dopo l’esplosione l’ha portata via, senza saper più ricordare il motivo e nemmeno a chi l’avesse consegnata.
«Oggi non si è ancora fatta giustizia per tutti i morti di quella strage, ancora non si sa cosa sia accaduto – ha continuato il fratello del magistrato – e per questo avevo perso la speranza per sette lunghi anni chiudendomi nel silenzio. Poi grazie ai giovani la speranza è rinata ed ho capito che va coltivata per un futuro migliore, per tornare a respirare quel fresco profumo di libertà di cui parlava spesso mio fratello».
Lacrime e applausi hanno ringraziato questa forte testimonianza, conclusasi con la lettera di una ragazza di diciotto anni che sogna di diventare magistrato.
Angela Napoli, oggi nella Commissione Giustizia e Antimafia ha invitato a non delegare tutti i compiti allo stato e alle forze dell’ordine, ma a mettersi in gioco in prima persona: «Ciascuno di noi ha un ruolo nella società, dobbiamo farci carico del rispetto della legalità, per creare un impegno comune per la lotta alla mafia, per non far sentire solo nessuno, né chi legifera né chi combatte né chi previene».
Oggi il nuovo problema è la capacità di mimetizzazione delle organizzazioni mafiose, il potenziale economico che permette loro di inserirsi nella società in cui vivono espandendosi in territori considerati in passato immuni. Per Angela Napoli «in Italia la mancanza di verità e giustizia sulle stragi di mafia parte dall’assenza di verità e onestà diffuse nella società. Ma un popolo che è piegato alla criminalità organizzata non è un popolo libero».
Riuscire a far ridere il popolo per sbriciolare il potere non è una formula nuova: lo facevano i giullari nel Cinquecento e lo faceva Peppino Impastato a Cinisi e l’attore teatrale Giulio Cavalli usa proprio la parola per attaccare la mafia: «La parola funziona, fa male e, soprattutto al Nord, riesce ad alzare il velo sul fenomeno mafioso.
Cavalli ha insistito sulla necessità di confiscare non solo i beni, ma anche la bellezza e la felicità di poter camminare a testa alta riappropriandosi della cultura che queste organizzazioni hanno rubato. «Bisogna innanzitutto sconfiggere la mafia che c’è dentro di noi, sconfiggere l’indifferenza e pretendere il rispetto delle regole contro chi continua a comprarle. Voi da che parte state? – ha chiesto ai presenti – Non decidere è una collusione ancora più grave! Dovete costringere la gente a prendere una posizione».
In Lombardia siamo alla fase dell’alfabetizzazione della mafia, perché per tre generazioni non c’è stata la curiosità: « La parola funziona, ma ha bisogno di unità; è ora di smetterla con questo antisbirrismo, toglietevi dalla testa che lo spinello che vi fumate il sabato sera non vada ad alimentare la mafia e che la borsa falsa che comprate dai marocchini non favorisca lo stesso mercato. Decidiamo se essere collusi o no, mettiamoci la faccia sempre, pensiamo alle cause,non agli effetti di questo fenomeno e così potremo farcela!»
È poi intervenuto Gaetano Guarini, funzionario pubblico siciliano che ha guidato la classe V F dell’ITC durante la visita di Palermo: «Ho ancora negli occhi l’immagine di due ragazzi di Como nel covo di Provenzano a Corleone, quando appena entrati sono andati a fotografare l’impronta del calcio tirato dal poliziotto alla porta per sfondarla».
La Sicilia è una regione con 18mila dipendenti pubblici, 2450 dirigenti e 32mila operai forestali, a cui fino al 1993 nessuno ha mai chiesto un certificato antimafia o la fedina penale. I presidenti della Regione tante volte sono stati inquisiti, indagati e condannati. «Ma oltre queste mortificazioni – ha raccontato Guarini – abbiamo avuto anche il presidente Mattarella e due funzionari regionali, Giovanni Bonsignore e Filippo Basile, uccisi perché avevano osato fare indagini su strani affari vivendo per questo nel clima di isolamento che precede la fine».
Nel 2003 a Guarini fu affidato l’incarico di direttore della riserva di Capo Gallo, che cade nel territorio dei Lo Piccolo: qui avvenivano indisturbati traffici di droga e summit di boss mafiosi e da allora è iniziata la lotta con Cosa nostra fatta di minacce e ritorsioni per ottenere il ritorno del territorio allo Stato.
Il rapporto annuale di Reporters sans frontièrs ha collocato l’Italia al quarantanovesimo posto per la libertà d’informazione e Freedom House ci ha declassati a paese semi-libero.
«Il potere economico e politico controllano il flusso delle informazioni, ma la colpa è anche dei giornalisti che accettano il sistema attuale» – ha denunciato Aaron Pettinari, giornalista della rivista Antimafia2000 -. Si parla di mafia solo in caso di grandi arresti e i più pensano che il problema riguardi solo il Sud Italia, ma ogni anno queste organizzazioni reinvestono in tutto il territorio 135 miliardi di euro, in parte anche nell’economia pulita. Noi cittadini dobbiamo reclamare il diritto ad essere informati, perché sono i movimenti culturali e i giovani i soggetti che possono fare la differenza».
Luigi De Magistris, eurodeputato, in collegamento telefonico a causa del blocco degli aeroporti, ha nuovamente sottolineato l’importanza di discutere di questi argomenti per contribuire a creare un pensiero libero e critico esortando gli studenti a riflettere, studiare e mobilitarsi per essere i protagonisti coraggiosi di questo movimento. [Tommaso Marelli, ecoinformazioni]