Ricette per la fame di cambiamento

Intrecci di popoli, festival delle culture, dei gemellaggi e della cooperazione internazionale, si è aperto venerdì 22 maggio nella biblioteca di Como teatro, nel tardo pomeriggio, delle conferenze Il cibo come motore di politiche per la riqualificazione della città e L’agricoltura familiare come strumento di democrazia alimentare. Il tutto seguito da un aperitivo equosolidale a cura di Garabombo e dal concerto degli Yo Yo Mundi (guarda le foto di Fabio Cani).

 

Conoscenza, cibo, musica. Sono tre bisogni primari, a cui bisogna dare ugualmente ascolto nella vita. Sono tante le organizzazioni coinvolte: Asci don Guanella, Aspem, Associazione Burebista, Coordinamento comasco per la Pace, Erga omnes, I bambini di Ornella, Il Sole onlus, San Lorenzo dei Romeni. Tutte per spaziare attraverso i tre ambiti in una sera.

Il pubblico sembra fatto per lo più da addetti ai lavori del mondo dell’associazionismo, e occupa solo una parte dell’auditorium, ma l’interesse è vivo. Non potrebbe essere altrimenti, perché i temi delle conferenze sono vasti e poco conosciuti. L’agronomo di Focsiv e Cefa Luciano Centonze parla dell’agricoltura familiare come uno strumento di democrazia. Per chi vuole il cibo pronto in tavola senza farsi domande, non è esattamente la conferenza adatta. Centonze parte da due dati: al contrario di un diffuso pensiero preconfezionato, il 70% del cibo prodotto nel mondo proviene da famiglie contadine, e una delle priorità assolute nella società dev’essere la sovranità alimentare, cioè la accessibilità fisica, sociale ed economica al cibo.

Per risolvere il problema della fame, per farlo democraticamente e nell’interesse di tutti bisogna quindi relazionarsi con gruppi di produttori dal basso. Bisogna aumentarne il potere decisionale, metterli in rete e migliorarne le condizioni. In Africa ad esempio sono le donne ad occuparsi tradizionalmente del lavoro nei campi, per cui parlare di rispetto delle donne e sinonimo di un lavoro più produttivo e sano. La salute nelle zone rurali è un altro fattore che influisce positivamente o negativamente sull’efficienza della produzione; bisogna includere e motivare i giovani, perché i nostri modelli e le nostre multinazionali sottraggono sempre più braccia alla campagna, e le spingono verso città sature.

Infatti, tanti territori sono divorati dalle enormi aziende e sottratti ai contadini. In Kenya quattro contratti posseggono 480 mila ettari, monoculture sottratte a produzioni alimentari. Sono sempre un pugno di multinazionali, quelle che gestiscono il mercato delle sementi. I semi sono resi in laboratorio poco resistenti ai parassiti, e incapaci di riprodursi. Tutto per dare il massimo profitto, ma solo alla Monsanto o alla DuPont, per citarne un paio. Bisogna rompere le catene delle famiglie di agricoltori dalla dipendenza di esterni, e far passare l’importanza dell’associarsi per far valere la propria voce. Non è completamente vero che la gente sogni il mondo occidentale, a volte la gente fugge solamente da un mondo che contribuiamo a rendere invivibile. Lavorare con gli agricoltori è un investimento per il pianeta, un pianeta che ha bisogno più che mai di esempi concreti di democrazia.

 

Rifondare concetti, darne un nuovo valore. Andrea Calori, di Està – Economia e sostenibilità, prosegue il discorso, spostando l’attenzione dalla democrazia alla città. L’agricoltura è sempre stata alla base della città. Milano, come tutte le città europee, fino agli anni ’50-60 coltivava “dentro le mura”. Anche negli Stati Uniti, durante il periodo bellico, il 40% degli ortaggi erano prodotti in città. Il petrolio infatti doveva essere utilizzato per uso bellico, più che per lo spostamento di merci e, inoltre, i fertilizzanti chimici sono dei derivati del petrolio. Il nostro modello di sviluppo è fondato sull’industria, ma è lungimirante? Detroit, l’emblema della città industriale, è fallita da diversi anni. L’occupazione cala, la città si spopola. Si potrebbe prendere in considerazione di rifondare le città sull’agricoltura. Nei Paesi Bassi ad esempio le terre inutilizzate sono riassegnate per utilizzi sociali, si danno in concessione terreni in cambio di prodotti per le mense scolastiche. Il cibo, come si può notare da vari movimenti sorti attorno questo tema, cerca rappresentanza politica, muove le persone e richiede democrazia. Bisogna iniziare a pensare ad economie più umane e che possano sopravvivere nel tempo.

La necessità di toccare con mano ciò di cui si è parlato è senza dubbio forte, è cresciuta in concomitanza con l’appetito. Così fuori dall’auditorium viene offerto un aperitivo con prodotti della cooperativa garabombo. Il “buon cibo” (che non è il titolo di una riforma di Renzi) è quello dove si paga il giusto il piccolo produttore, e dove possono coesistere nella stessa ricetta il cacao del brasile e le uova di un contadino locale.

Tra i bisogni primari citavo la musica. Le persone hanno bisogno di sentire canzoni, di sentirle sotto pelle. Canzoni che scuotono le membra, canzoni che ti salgono dalla gola. Canzoni che denunciano, innamorano, ci fanno sorridere. Così gli Yo Yo Mundi, con le loro note folk, concludono la serata. Le loro canzoni parlano della morte di 600 mila alveari in Italia nel 2008, per l’utilizzo scriteriato di nicotinoidi, antiparassitari. Parlano del riscaldamento delle acque, sono ballate allegre, a volte nel dialetto del Monferrato.

Inevitabile concludere con la musica. Perché parafrasando il cantautore Facundo Cabral i musici e gli artisti non sono la libertà, ma sono coloro che la provocano. [Stefano Zanella, ecoinformazioni]

 

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