La legge è uguale per tutti, ma i neri sono tutti uguali

La durissima sentenza che ha colpito il 2 luglio i quattro imputati dell’aggressione, avvenuta il 5 giugno, a due autisti dell’Afs, continua a sollevare dubbi soprattutto sulla severità delle pene inflitte e sulla fondatezza del riconoscimento di due di loro che hanno dichiarato, inascoltati, l’estraneità ai fatti portando in aula testimoni per dimostrarlo. In attesa dell’appello, pubblichiamo il resoconto delle udienze del processo e le considerazioni di Amanda Cooney, una delle volontarie della” Bella Como”, che chiede attenzione per questa vicenda troppo presto e troppo male archiviata come teppismo di migranti e frettolosamente attribuita a ragazzi neri “riconosciuti”  ma per molti indistinguibili da altri e per la difesa del tutto innocenti.

«La legge è uguale per tutti

Un crocefisso appeso al muro, l’aula dell’udienza è un via vai di persone, toghe di velluto nero, abbigliamento casual, tailleur professionali, magliette scollate… I vestiti, saranno l’elemento centrale dell’udienza di stamattina. Ascolteremo tante domande poste in modo gentile, lieve, non nel modo incalzante come le pongono gli avvocati delle serie televisive, su t-shirt gialle, camicie blu, maglie della Juve, scarpe trainers, e zainetti vari. Faccio fatica a seguire il filo dei discorsi, a comprenderlo. I miei occhi si fissano sull’iscrizione sotto il crocefisso, dietro la poltrona del giudice: La legge è uguale per tutti. Il crocefisso mi fa venire in mente quei vecchi film americani ambientati nei tribunali del Mid-west dove si giura sulla Bibbia. In Dio noi confidiamo. In Dio noi confidiamo. La Giustizia bendata. E io spero intensamente che sarà ciecamente imparziale per un gambiano di religione musulmana, in questa calda città di provincia scossa dagli ultimi accadimenti. Due autisti di autobus (Afs linee urbane) sono stati aggrediti alle 8 e 30 di sera del 5 giugno 2018 da un gruppo di extracomunitari/uomini di colore che pare si fossero rifiutati di mostrare i loro biglietti validi ad uno dei due autisti, perché, naturalmente, si sa che in quest’Italia, gli extracomunitari non pagano mai e pretendono sempre di viaggiare sui i mezzi pubblici gratis. Spesso questa è la verità. Tanti non pagano. La gente del posto è esasperata. La legge è la legge. Specialmente quando ad essere coinvolti sono gli stranieri – la legge è senza ombra dubbio legge da fare rispettare allora. Fossero degli studenti liceali, forse sarebbero solo ragazzate, punibili al massimo con un rimbrotto, neppure troppo convinto, dai loro genitori.

Di questa aggressione fisica da parte di un branco di immigrati neri si impadroniscono prima la stampa locale, poi quella nazionale ed infine il neo insediato ministro dell’interno Salvini. Salvini, che ha detto in passato che avrebbe spianato le armi contro i barconi dei migranti nel mediterraneo, e che avrebbe sbarcato tutti i migranti su una spiaggia dando loro solo un pugno di noci. Si precipita a Como, si fa fotografare mentre abbraccia i due autisti contusi. Promette che accompagnerà personalmente il musulmano gambiano all’aereo che lo riporterà in Gambia, visto che oltretutto ha un’accusa per spaccio pendente, a Genova.

Il Musulmano Del Gambia

Yusupha mi ha fatto conoscere la versione Africana di Bob Marley. Io, a mia volta (una buona azione merita di essere ricambiata) avevo pensato di fargli conoscere Ed Sheeran, perchè sono così presuntuosa. Ma naturalmente, lui conosceva già le canzoni di Ed Sheeran e le canticchiava con me mentre strusciavamo il pavimento alla mensa della Caritas, dopo che i migranti avevano finito di mangiare. Diceva che non avrebbe potuto vivere senza la musica. La musica era quello che lo faceva andare avanti, e come me, l’ascoltava costantemente dalle cuffie. Prendeva vita quando parlava del suo bimbo, rimasto a casa con la nonna, dopo che una malattia si era portata via la sua giovane mamma, in Gambia, dove Yusupha si era guadagnato il soprannome di Uk (United kingdom). Credo che con un soprannome così, in fondo avesse sempre sperato di approdare nel Regno Unito, forse da tutta la vita. Parlava con passione delle partite di calcio della sera prima e degli incontri di pallone che disputava con gli altri migranti, qui a Como. Giorgia lo descrive come un bonaccione che non alzerebbe mai le sue mani su nessuno. È un ragazzo grosso, muscoloso, con la pelle d’ebano. Giusto il tipo che mette paura in quieta cittadina sonnacchiosa che è stata prevalentemente bianca da sempre, e che guarda indietro con nostalgia alle passate ricchezze legate a doppio filo all’importante polo produttivo della seta poi declinato e solitamente guarda con sospetto e ostilità a qualsiasi cosa o qualsiasi persona percepite come diverse – non “uno di noi” insomma. Oggi, al processo lui sta indossando una maglietta gialla.

Udienza  – ore 9 del 21 giugno 2018

Testimoni – I due autisti di autobus, due dei poliziotti che hanno effettuato i fermi e un proprietario di un bar le cui telecamere di sicurezza mostrano degli uomini di colore sull’autobus dove è avvenuta l’aggressione.

Il primo dei due autisti, Pietro Lombardo, è interrogato dal Pubblico ministero. Riferisce di un gruppo di extracomunitari che sale sull’autobus,  che si rifiuta di mostrargli il biglietto quando lui lo richiede educatamente e che poi si dirige verso il fondo del veicolo. A quell punto lui si rifiuta di riprendere a guidare fino a quando non gli avessero mostrato I loro biglietti validi – insulti, imprecazioni, spintoni  – lui chiama la polizia. Allora loro reagiscono, attaccandolo fisicamente – con calci e pugni lo fanno cadere a terra. Il suo collega su un altro utobus assiste alla scena e viene in suo soccorso, a sua volta è attaccato fisicamente. Quado arriva la polizia, gli africani scappano in direzione del tribunale. La polizia ne arresta due, quasi subito, nelle vicinanze del Palazzo di Giustizia, che sono poi immediatamente identificati dagli autisti ancora sul posto. Poi, muniti di una descrizione di altri due africani, le pattuglie della Polizia vanno a cercare gli altri aggressori nei Giardini a Lago. I Giardini a Lago, sono il ritrovo abituale dei migranti africani – alcuni ci vanno per spacciare droga, altri si ritrovano in gruppo li, perchè l’essere insieme, numerosi da sicurezza e tutti ci sentiamo più sicuri quando siamo tra i nostri simili e sappiamo bene che Como può sembrare un luogo ostile per un ragazzo nero che cammina da solo per le strade. E’ il loro luogo di incontro. Basta la loro presenza per mettere la paura addosso ad una gran parte dei comaschi, che vedono ogni nero africano come un potenziale violentatore, ladro, spacciatore e un tipico criminale sotto ogni punto di vista. Le persone del luogo trovano difficile adattarsi a questo afflusso di migranti di colore che sono regolarmente etichettati come clandestini dai più appassionati e rumorosi sostenitori di Salvini e compagnia cantante. L’amministrazione locale di destra ha promesso di ripulire I Giardini a Lago, e non si riferisce ai rifiuti e alla spazzatura. La gente – la gente deve scomparire. Pattuglie di Carabinieri e Polizia pattugliano i Giardini giornalmente. Lo fanno per rassicurare la gente. Mi riempie di disagio. I giornali locali pubblicano articoli con titoli acchiappa-click “Un modo per cacciarli dall’Italia” e “La situazione ai Giardini è migliorata: la maggior parte dei migranti se ne sono andati”. Ogni volta che, mentre sto facendo la mia corsa quotidiana o il mio solito giro in bicicletta sul lungo lago, vedo un migrante di colore, mi viene la tentazione di fotografarlo, postare l’immagine sui social media e commentare:” Hey…ve ne siete perso uno” facendo una specie di riferimento culturale a un film di Ken Loach, nel quale una madre schernisce la propria figlia spazzina, ogni volta che dimentica un po’ di immondizia sulla strada. Ma questo è un riferimento culturale così oscuro che sfuggirà ai più. Accidenti, è quasi sfuggito pure a me. Il punto è che, le persone (clandestine, richiedenti asilo politico,rifugiati, migranti economici e più ne hai più ne metti ecc. ecc.) non scompaiono magicamente – a meno che, naturalmente, li si voglia far sparire e li si faccia sparire. Ma nel corso della Storia abbiamo già vissuto momenti come questo, vero? E non stiamo ritornando a quei momenti…vero?

Testimoni per l’accusa

Il secondo poliziotto che si è seduto come testimone ha dichiarato che a lui e al suo collega erano state comunicate (non molto dettagliate… diciamocelo) delle descrizioni di due uomini africani; uno con una maglietta gialla e l’altro con un cappello da baseball grigio. I poliziotti si sono incamminati verso un gruppo di ragazzi neri seduti su una panchina vicino al modello di trenino che c’è ai giardini. Il gruppo sembra tranquillo. Quando il poliziotto in Borghese e i suoi colleghi in uniforme (pare che seguissero a una certa distanza) si avvicinano al gruppo, nessuno tenta di scappare o anche solo di andarsene. Fermano Yusupha perchè corrisponde alla descrizione – un uomo nero che indossa una maglietta gialla, e il suo amico gambiano, che anche lui corrisponde alla descrizione – un uomo nero che indossa un cappello grigio.  Perfetto, corrispondono completamente alla descrizione, non è vero? L’unico piccolo problema è che l’amico gambiano con il cappello grigio che adesso è seduto nel banco degli imputati con Yusupha aveva una bicicletta con se.

L’autista dell’autobus riconosce tutti e quattro gli imputati come suoi aggressori. Si gira verso di loro e con convinzione ripete chiaramente che riconosce tutti e quattro. Quando l’avvocato difensore di Yusupha gli chiede se riconosce anche il suo cliente in particolare, lui risponde di si, che era senza ombra di dubbio il ragazzio nero con la maglietta gialla nelle immagini della telecamera di sicurezza. L’avvocato poi cerca di chiedere la domanda politicamente scomoda (lasciamo stare ‘scorretta’) che è al cuore di questo dibattimento – ‘Lei riesce a riconoscere le……… fattezze…….?’ Dice la parola ‘fattezze’ con delicatezza, quasi sussurrandola. Il giudice interviene con un sonoro e deciso: ‘Non ammetto la domanda!’  Dopo la fine dell’udienza l’avvocato mi confiderà che anche lei avrebbe difficoltà a distinguere un ragazzo nero dall’altro. E io devo ammettere a me stessa che io stessa farei molta fatica.

Più testimoni per l’accusa

Per abbreviare una lunga e noiosa storia di procedura processuale, I testimoni per l’accusa hanno tutti dato credito alla tesi che tutti e quattro gli imputati fossero presenti all’aggressione, ne abbiano attivamente preso parte, siano poi scappati, e siano stati infine riconosciuti e conseguentemente identificati senza alcuna ombra di dubbio dalle due vittime. L’atmosfera in aula di colpo si addensa e l’aria diventa irrespirabile.

Testimoni per la difesa:

Testimone numero 1: un prete – Alessandro Zanti, gestisce la casa famiglia che ospita il ragazzo accusato e fermato con Yusupha. Durante l’interrogatorio della difesa, si evidenzia che Camara esce sempre in bicicletta e che agli ospiti africani della casa venivano dati dei biglietti nel caso che avessero avuto bisogno di usare i mezzi pubblici. Camara non era tornato in tempo il 5 giugno per la riunione settimanale che si tiene alla casa famiglia. Il Pubblico Ministero cerca di attaccarsi a questo particolare come se fosse una prova di colpevolezza di vitale importanza. Io penso fra me e me, è un delitto così grave per un giovane musulmano il voler essere con I suoi amici a Como alle 8 e 30 di un Martedì sera invece che ad un incontro cattolico a Blevio?

Testimone numero 2:  Marco Nardini, un ospite disoccupato alla casa famiglia a Blevio, che ha dichiarato di aver visto Camara alla casa fino almeno alle 4 e 30 quando l’imputato poi se ne andò via in bicicletta. La sua bicicletta. La bicicletta. Un mezzo di trasporto a due ruote. Di nuovo il Pubblico Ministero cerca di evidenziare il fatto che Camara non era ritornato per la riunione delle 7 e 30. Il Nardini risponde che gli ospiti non sono obbligati a partecipare a quelle riunioni. Il Pubblico Ministero lo incalza sul fatto, per lui inaccettabile, che l’imputato non avrebbe avvisato nessuno che sarebbe rientrato più tardi. Si, si. Proprio come tutti I ventenni che conosco. L’avvocato difensore cerca umilmente di far osservare che al tempo era periodo di Ramadan. Di nuovo interviene il giudice con un ‘Non ammetto la domanda’. Il Ramadan, quando i fratelli e le sorelle musulmane (ci sono molto poche sorelle qui per i musulmani  sub-sahariani) si ritrovano per mangiare al tramonto dopo un’intera giornata di digiuno. Il tramonto il 5 giugno – 21.08. Non ammissibile.

Testimone numero 3: Laura Brombin, una volontaria con Como Accoglie. La sera del 5 giugno, la signora Brombin parte da Rebbio per andare alla stazione di Como San Giovanni. Lei arriva 8.45pm. Si ricorda l’ora precisa perchè riceve una telefonata dal suo compagno e si ricorda il minuto alla fine della conversazione 8:47. In quel’attimo si gira e vede Yusupha, che conosce bene a causa del suo impegno come volontaria.

‘Ciao Yusupha, cosa fai in bici?’

‘E’ di un mio amico.’

La conversazione prosegue. Laura gli chiede se ha già mangiato, ma siccome è periodo di Ramadan, Yusupha spiega che sta per comprare del cibo per poi incontrarsi con i suoi amici per mangiare insieme al parco. Laura e Yusupha si salutano e separano.

Testimone numero 4 per la difesa: un venticinquenne del Gambia che parla pochissimo italiano. A l’interprete è richiesto di fare l’interprete. Lei ha avuto un compito molto facile questa mattina, no ha dovuto tradurre neppure una singola parola, visto che i quattro imputati, richiesti a questo proposito, hanno dichiarato di essere in grado di seguire il dibattimento in italiano. Col cavolo che siete in grado ragazzi, con il vostro livello di italiano molto elementare. Dopo diversi inciampi, tentativi incompresi di riportare le domande del giudice, il ragazzo del Gambia decide di fare da solo e risponde alle domande nel suo italiano semplice e un po’ stentato. Non c’è più bisogno delle capacità di traduzione dell’interprete. Quando gli viene domandato, dichiara di conoscere bene gli imputati, che erano al lago tutti insieme per celebrare il Ramadan e che la Polizia era arrivata alle 9 circa e che avevano prima comprato il cibo al Carrefour al lago.

Colpo di scena:

Uno degli accusati alza la mano. È uno dei due nigeriani, l’altro ha già ammesso le sue responsabilità ed ha chiesto di essere ammesso al rito abbreviato. Vuole fare una dichiarazione. Viene accompagnato alla sedia dei testimoni e nel suo italiano stentato dice che Yusupha non era il ragazzo con la maglietta gialla, che ‘non ha spaccato’ Yusupha. Aggiunge il nome del vero colpevole: le sue parole sono quasi indecifrabili – è stato Jus / Chuse / Jazz.

L’aria si alleggerisce, incomincio a respirare.

La prossima udienza è fissata per il 2 di luglio.  Le moderne manette nuovo modello vengono riallacciate ai polsi. Yusupha fa in tempo ad alzare un braccio in segno si saluto e sorride nella nostra direzione.  Francesca incomincia a piangere. ‘Non piangere, Francesca. Non piangere.’ Le lacrime non aiutano adesso. Yusupha non ha bisogno di lacrime. Ha bisogno di giustizia.

L’Udienza – 2 luglio – Il Verdetto: la decisione del Giudice

Nel nome della Repubblica Italiana il Giudice trova tutti e quattro gli imputati colpevoli delle accuse. Il nigeriano che aveva chiesto il rito abbreviato viene condannato a quattordici mesi di prigione, con lo sconto di un terzo  che si ottiene essendo ammessi a questo tipo di procedura, mentre gli altri tre, giudicati con il rito ordinario sono condannati a ventuno mesi. Per tutti e quattro la richiesta del pubblico ministero era più che raddoppiata rispetto alla pena base prevedibile a causa delle innumerevoli aggravanti contestate, come resistenza, interruzione di pubblico servizio, ecc. Ulteriormente, il giudice ordina la trasmissione degli atti degli interrogatori di due testimoni chiamati dalla difesa, alla Procura della Repubblica, perché venga rilevato se ci possano essere gli estremi del reato di falsa testimonianza. Le moderne manette scattano immediatamente ai polsi di Yusupha e Salifa, che vengono velocemente condotti nel sotterraneo dove li attende il furgone penitenziario che li riporterà in prigione.

Nel corso dell’udienza, un uomo non precisamente identificabile come uno degli attori del procedimento, era presente nell’area riservata, si muoveva in modo esperto, rivolgendosi in modo confidenziale e amichevole, di tanto in tanto, sia alla Pubblica Accusa sia agli Avvocati Difensori. “Sono ormai più di vent’anni che sto a Como…”, “Vi ricordate di quell’arresto presso il Tempio Voltiano…”, frasi estrapolate dagli aneddoti scambiati con la Difesa, durante una pausa. Il giorno dopo la sentenza, uno dei giornali locali riporta che il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, aveva espressamente chiesto  alla Prefettura e alla Questura di essere aggiornato in tempo reale sull’andamento dell’udienza e sul verdetto. Due membri della locale amministrazione (il Sindaco della giunta di destra, Mario Landriscina e il Vicesinadaco e Parlamentare della Lega, Alessandra Locatelli) hanno espresso la loro soddisfazione per come si è conclusa la vicenda. La Locatelli dichiara a un giornale locale, La Provincia di Como, “’Meno male, sono molto contenta che la giustizia abbia fatto il suo corso”, e aggiunge sulla necessità di ulteriori punizioni esemplari come deterrente efficace e sulla sua speranza che tutti gli immigrati illegali siano deportati il prima possibile. Su Facebook, le bacheche dei commenti sui post dei media locali sulla vicenda sono pieni zeppi del solito vitriolo contro gli immigrati:

“Spero che buttino via le chiavi. Dovrebbero marcire in prigione, ma a casa loro”.

“Ben fatto Salvini. Ora avanti così”.

“Non nelle nostre prigioni ma fuori dall’Italia, a casa loro. Fanno la bella vita nelle nostre prigioni – vitto, alloggio, una diaria, luce, gas, niente affitto…via, mandiamoli a casa loro”.

Durante il processo uno degli avvocati della difesa, gentilmente e abbastanza timidamente aveva suggerito che forse si potevano riscontrare delle gravi anomalie nella procedura che la polizia aveva usato per sottoporre le foto dei due ragazzi gambiani, come supposti aggressori, ai due autisti aggrediti. Anomalie che in circostanze normali avrebbero dovuto invalidare il riconoscimento stesso, come da precedenti di  giurisprudenza portati ad esempio. L’album fotografico mostrava solo sei individui, compresi i due ragazzi nigeriani già fermati, quindi in realtà le scelte si riducevano a due su quattro, con gli altri due ragazzi presi per completare la scelta, vestiti in modo completamente diverso, da chiunque avesse preso parte all’aggressione. Un vero e proprio riconoscimento delle magliette non degli individui. Al di là di tutto, tutte le incongruenze nella vicenda, tutte le anomalie, tutti i riscontri contrari, si perdono sullo sfondo, messi in secondo piano dall’applauso scrosciante che accompagna un verdetto che sembra far gioire i più e rattristare molto pochi.

La sera della sentenza sono andata per una passeggiata in riva al lago. Negli ultimi giorni la temperatura è salita ben al di sopra dei trenta gradi. Il livello di umidità è molto alto e le zanzare si divertono a pungere la mia pelle umida e sudata. L’aria è tornata a essere pesante. Pesante e irrespirabile. Faccio fatica a respirare. Quando Francesca apprende della notizia, scoppia a piangere al telefono. Questa volta non ho parole di speranza e di conforto per lei. Diversamente da Alessandra Locatelli, non credo che “la giustizia abbia fatto il suo corso” e ho più di un dubbio che “la giustizia sia bendata” per un richiedente asilo, nero, a Como, Italia, nel 2018». [Amanda Cooney]

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