E se capitasse a me?

A Como c’è una mostra che non è una mostra, artefatta (nel senso di fatta ad arte, ma anche di falsificata) ed abusiva anche se non vera. È una mostra che non si può vedere (di persona), ma che è impossibile non vedere (nella quotidianità delle frasi, posti ed oggetti racchiusi in essa). Indicibile, di Alle Bonicalzi, è geniale sotto moltissimi aspetti, ma soprattutto perché porta alla luce, visibile nella propria nuda sostanza, una domanda: e se capitasse a me?

Credo che almeno una volta nella vita, avendo ascoltato una notizia di stupro o violenza, ciascuna di noi si sarà chiesta «e se capitasse a me?», interrogandosi nel confortevole spazio dei propri pensieri circa le reazioni possibili, il livello di forza necessario per scappare, la capacità di guarire dopo aver affrontato l’inferno.
È qualcosa di cui nessuna di noi parlerà mai con orgoglio o convinzione, perché implica la possibilità che qualcuno annulli la nostra volontà, la nostra identità, le sottili pieghe del nostro corpo, tutte cose che giorno dopo giorno ci sembrano più preziose.
Ce lo siamo chiesto sottovoce negli incontri in cui ci sentivamo a casa, abbracciate nello sguardo da sorelle e fratelli, amiche, amici, compagne e compagni, pronti a sostenerci nel tentativo di rovesciare sistemi soffocanti – sono sicura se lo chiedano anche loro, sussurrando dentro se stessi, spaventati quanto noi.
Ce lo siamo chiesto l’un l’altra quasi di fretta, di sfuggita, cercando di non abbassare gli occhi, sperando di trovare la forza nelle risposte delle altre per mettere a tacere la paura.
Perché sono domande da non fare alla leggera, ma sono domande che inevitabilmente ci faremo, dopo aver letto il giornale, dopo aver ascoltato qualcuna di noi raccontarlo, dopo esserci rese conto che la violenza si declina in tante crudeli, sottili sfumature.
Ce lo siamo chiesto forse ogni volta, nel sottofondo di pensieri distanti, tornando a casa, andando a lavoro, camminando per strada, guardando quegli stessi angoli in cui Alle sapientemente ha inserito i propri lavori, un po’ ovunque nel mondo – me lo chiedo ancora mentre guardo le indicibili fotografie incollate abusivamente (si fa per dire) su altre fotografie, vestendo i luoghi della quotidianità comasca di denunce impossibili da non notare.
E se capitasse a me – come è capitato a tante, come continua a capitare?
E se capitasse a me, di incontrare una volontà annichilente in grado di spezzarmi?
E se capitasse a me di ritrovarmi il corpo annullato dagli abusi di altri?
E se capitasse a me di ritrovarmi in gabbia, prigioniera di catene infrangibili proprio perché (quasi) invisibili?
E se mi ritrovassi io la faccia coperta di lividi
O il futuro già costruito – nella carne e negli ideali
O i miei diritti vilipesi, alienati
O il mio nome spiattellato sui giornali, nei processi, nelle analisi probatorie, nelle investigazioni private, nella bocca di tutti – ennesimo numero tra numeri – protetta solo dalla solidarietà di chi porta quelle stesse cicatrici?
E se capitasse a me, ce la farei a sostenere tutto questo, a rimanere in piedi nonostante la marea fangosa dirompente, nonostante i lividi e le ferite più profonde, a prendermi il mio tempo per soffrire e poi guarire, come capita a tante, ma non a tutte? Ce la farei a rimettere insieme i pezzi, ad accettare il fatto che sia successo davvero? Ce la farei a ritornare in un mondo dove potrebbe succedere di nuovo e a chiunque – perché no, non importa com’eri vestita? Ce la farei a tirarmi via le graffette, le spille, i punti, le macchie, gli strappi, i luoghi comuni, le accartocciature ed i tagli che ciascuna di quelle opere porta con sé, sostenute dallo sguardo forte della stessa donna – ché poi siamo tante – in grado di bucare le barriere di qualsiasi coscienza, inchiodare i tuoi occhi nei propri e costringerti a tirare fuori una risposta a quella domanda.
Non lo so.
È spiazzante.
Non lo so.
Probabilmente nessuna di noi lo sa, ed è questo a spaventarci davvero.
Finchè questa domanda avrà modo di esistere, tarlo sinistro a corroderci i pensieri, pulce malefica ad affrettarci il passo, pungolo perenne nel quotidiano, finchè le case delle donne dovranno allargare l’abbraccio per accogliere in sé nuove vittime, finchè la cronaca trasuderà – nonostante le possibili distorsioni e storture delle storie – sangue che parla di maltrattamenti ed abusi, finchè innocuo verrà scritto con la Q di qualunquismo, quisquilie e «è stato un piccolo qui pro quo», finchè la donna di Alle, vilipesa, derisa, soffocata, messa a tacere, alienata, cucita all’interno di se stessa, non potrà uscire dalla fotografia per parlarvi di persona, finchè non riusciremo a guardarci negli occhi davvero senza indietreggiare ci sarà bisogno di un giorno lungo come tutto l’anno per fermarci e rivolgere a chiunque sia intorno a noi: e se capitasse a te? [Sara Sostini, ecoinformazioni]

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