Genova 2001/ Piazza Grande/ école

Scrissi questo articolo dopo Genova 2001, sulla mia rivista, école – che ha segnato una parte grande (e bella) della mia vita. E’ un momento di ricordi questo dei venti anni da quelle manifestazioni. Di ricordi intensi, interni, rintracciati dentro di te, che ti dicono anche chi sei, malgrado il mondo che ti circonda. Ti fanno ritrovare le persone con cui hai condiviso un pezzo della tua vita. Le persone che hai amato come si amano delle sorelle e dei fratelli.
Dei compagni.


Piazza grande
Uno si prepara a scrivere sul nuovo governo Berlusconi.
Ti domandi che cosa vorrà dire per la scuola devoluzione, come cambierà lo stato giuridico degli insegnanti, quale differenziazione di funzioni, gerarchie e valutazione del “merito” (privatistico e aziendalistico) porterà il ciclone Moratti. Leggi dei discorsi al meeting CL di Rimini e ti lascia di stucco la volgarità dei ragionamenti: la scuola una scelta personale (cioè delle famiglie) come prenotare sul mercato per i propri bambini una fede o un’ideologia invece di un’altra (libertà dallo stato-chiesa, la chiama Buttiglione, per il quale è davvero impensabile il concetto di laicità; più società dicono i ciellini, e intendono più privatizzazione, perfino dell’etica, cioè mercato e beneficenza); nei cicli un percorso per chi deve lavorare (quelli che hanno la vocazione) e un altro per chi studierà l’alta tradizione patria, classica naturalmente; l’esame di stato poi da cambiare perché così passano tutti (ma non quelli delle private).
Provate a indovinare dove e come si formerà la classe dirigente…
Pensi quale potrebbe essere il senso di questa strategia, più o meno una disintegrazione del pubblico — non dello stato, almeno per gli apparati repressivi e d’esclusione — nell’avvicinamento serenamente classista al cliente: famiglie depositarie uniche dei valori (magari con radici comunitarie tipo sangue e suolo), acquirenti del prodotto più utile, più simile a sé, nel grande ipermercato dell’istruzione, “democraticamente” aiutate dal buono-scuola ad accedere allo stand preferito.
Ti domandi cosa potrebbe accadere di una società dove ognuno si compra la formazione e il sapere che gli conviene — o gli tocca come destino sociale: il suo rapporto con la collettività, la sua identità culturale e politica.
Pensi che tristezza scrivere di scuola in questa maledetta estate.
Poi decidi di andare a Genova.
Troppo metaforica la città proibita, troppa paura addosso per stare a casa: sembrerebbe per sempre.
E viene fuori una storia che — ancora adesso — pensi che segnerà un bel po’ della tua vita. Radice dello sconforto e della gioia a venire.
Perché quel popolo internazionalista e un po’ situazionista sul lungomare genovese è fatto di ragazzi e ragazze, adulte e adulti, bellissimi. Per fortuna stavolta non ti somigliano. Non somigliano nemmeno alle cose che avevi conosciuto dagli anni ’70 a oggi. Vengono alla politica dalla loro vita, non appartengono a sigle ma a pratiche, non vogliono conquistare il potere ma sottrarvisi e sottrarre, costruire altre poleis.
Per questo ti sembra facciano così paura. Certo nella testa dei poliziotti sono ancora anticamente “i rossi” — e adesso è la volta che sentono di poter regolare il conto, sfruttando i pochi che accettano il gioco maschile dello scontro militare. Ne esce un incubo di violenza, sangue, morte: segno di quanto è forte ancora da noi la tentazione dello stato autoritario. Bisognoso di cure il diritto.
Ma quelli che fanno davvero paura sono quei ragazzi e quelle ragazze radicalmente diversi dagli eserciti, dagli stati e apparati che li affrontano. Sembrano felici e quasi ingenui, ma con una forza sorprendente che dev’essere legata a quella tenerezza e sembra contagiare anche Genova — soprattutto le donne che dalle finestre vedono il mare, e ti portano l’acqua, come una poesia di Caproni.
La tua festa — profumo di limoni da un portone socchiuso, fra i lacrimogeni — arriva quando ti rendi conto che quei giovani sono anche i tuoi studenti. Quelli che ti sembravano diventati indifferenti, lontani dalla politica, chiusi a coltivare la propria piazzetta. Ora piazza grande.
Pensi che forse erano lontani soprattutto dalla politica come la conoscevi tu, segnata dalle antiche istituzioni dello stato-nazione e dalle nuove dei media.
Loro passano quasi immediatamente dalla società (dal fare società) al mondo, e anche se non dicono quale, con quale «piano di allocazione delle risorse», ti sembra salutare questa guerriglia al mercato fatta di relazioni ravvicinate, scambio post economico fra chi “si conosce e si ama”.
Ti verrebbe da abbracciarli quelli e quelle che incontri, così sconvolti e così seri.
Adesso pensi che a settembre tornerai a scuola volentieri, come se avessi tante storie da raccontare — che non racconterai perché non si fa, ma che esisteranno ugualmente nella zona rossa che è il cuore della scuola. [Andrea Bagni, école]

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