Giugno è il mese del Pride. In tutta Italia diverse iniziative sono volte a celebrare i diritti civili LGBTQAI+, ma molto spesso manca la componente sociale, legata a quello che era in origine questo momento di liberazione. Senza diritti sociali, i diritti civili rischiano di diventare specchietti per le allodole, preda di azioni di rainbow-washing da parte di aziende sponsor a cui nulla interessa dei diritti violati. Il Pride, la prima volta, fu rivolta. Può esserlo ancora.

È l’1 e 20 della notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 e siamo nella Christopher Street del Greenwhich Villa di New York all’interno di un locale nato negli anni ’30 e per lungo tempo gestito dalla Mafia. Nel ’69 questo locale, lo Stonewall Inn, è considerato un “gay bar” e quella notte, a causa del divieto di vendere alcolici a omosessuali non rispettato – seppure in una New York dove l’essere omosessuali era legale – avviene l’ennesima irruzione della polizia. Ma questa volta ne nasce uno scontro: si narra che l’attivista Sylvia Rivera, donna transessuale, abbia lanciato una scarpa impugnata dal tacco contro un poliziotto, innescando la protesta.

L’episodio diede inizio ad una serie di sollevazioni che continuarono anche nei giorni a seguire e che oggi vengono ricordate come I moti di Stonewall. La prima volta, fu rivolta. I moti, si dice, diedero origine al movimento LGBTQIA+ da cui progressivamente è emerso l’orgoglio di questa comunità nelle manifestazioni di rivendicazione della propria libertà. Per questo motivo, giugno è il mese del pride. È Storia. È rivolta.

Negli anni, progressivamente, all’aumentare della popolarità dei temi legati ai diritti civili della comunità LGBTQIA+ la società capitalista si è adeguata. Oggi vediamo moltissime aziende, più o meno grandi, mettere sui loro piccoli loghi distribuiti in giro per i social e non solo, la bandiera arcobaleno. È il rainbow-washing, un neologismo che descrive la strategia di accostare un brand alle istanze LGBTQIA+ per ottenere visibilità agli occhi del pubblico e dunque incrementare le vendite di un prodotto o migliorare la propria reputazione (brand reputation).

«Il rainbow-washig si associa al pinkwashing (legato al femminismo) o al greenwashing (legato all’ambientalismo) in quanto è un utilizzo di tematiche sociali da parte di aziende per farsi pubblicità», mi dice Cristina Di Giovanni, vice-presidente di Arcigay Como. «Si potrebbe pensare che questo aiuti a smuovere l’opinione pubblica ma il problema è che queste aziende non supportano le comunità LGBTQIA+, non devolvono profitti in beneficienza e non cambiano le loro politiche aziendali per diventare più inclusive. Si appropriano della nostra lotta sfruttandola per farsi pubblicità in un vero e proprio business. L’arcobaleno e le nostre bandiere stanno diventando un marchio. Dietro le dichiarazioni, come ad esempio quelle di Coca-cola, non ci vediamo altro che ipocrisia».

Nel mese del Pride, molti brand, come appunto Coca-cola (anche quest’anno sponsor a Milano) hanno fornito le loro sponsorizzazioni semplicemente per migliorare proprio la loro reputazione. Se le alleanze trasversali per i diritti civili (ma anche sociali) sono fondamentali, certo queste devono tenere conto della effettiva eticità senza opportunismi.

«Noi crediamo in una battaglia etica e sostenibile anche da un punto di vista ambientale e facciamo conto di appoggiarci ad associazioni e realtà, anche sponsor ma che siano rispettosi delle nostre politiche sociali. Quindi noi dal nostro punto di vista non permetteremo che le persone si approprino delle nostre rivendicazioni per farsi pubblicità. Noi vorremmo delle persone a sostegno ma deve essere un sostegno pulito», conclude Cristina.

Nella recente intervista di Beatriz Travieso, proprio qui su ecoinformazioni, anche il presidente di Arcigay Varese Giovanni Boschini nell’ambito del Pride a Varese ha parlato di raimbow-washing e sponsorizzazioni: «Il rainbow-washing è difficile da gestire, Arcigay Varese prima di farsi sostenere verifica che la realtà commerciale sostenga i diritti della comunità LGBTQIA+ anche tra i dipendenti per creare un clima accogliente e inclusivo, visto che sul posto di lavoro ci passiamo tantissime ore, e che facciano anche delle attività supplementari».

Secondo Margherita Balestrini, del gruppo Como Pride, che con Arcigay ha organizzato la manifestazione a Como, il tema sponsor è un tema complesso. «Noi pensiamo che non abbia senso fare un pride con a fianco un’azienda che ti offre i propri prodotti gratis e si fa pubblicità con scritte arcobaleno, quando è la stessa azienda che fa parte di un sistema che perpetua l’omobitransfobia, il gender gap, la cultura patriarcale in cui siamo immersi e non fa altro che alimentare le diseguaglianze sociali».

Il Pride a Como, mi dice, è in modo particolare finanziato attraverso gli eventi che hanno realizzato mantenendo un contatto con le persone. È basato sull’autofinanziamento, sulle offerte libere e attraverso la costruzione di un certo tipo di socialità. Lontano quindi da strumentalizzazioni e da aziende che «lucrano sul sangue e sul sudore dei lavoratoru, che opprimono le popolazioni e le loro terre e ci tolgono lo spazio che per una volta ci prendiamo».

Per quanto riguarda Milano, la manifestazione del 2 luglio che partirà dalla Stazione centrale, seppure senza il patrocinio di Regione Lombardia, sarà un evento sicuramente molto partecipato. Arci Milano ha deciso di aderire, soprattutto con il circolo Lato B, ma per sottolineare l’importanza dei diritti sociali strettamente connessi con quelli civili, il presidente Maso Notarianni ha diffuso una nota in cui in un significativo passaggio si legge:

«[…]Noi di Arci supportiamo i diritti civili e sociali rivendicati dalla comunità LGBTQIA+, che si inseriscono in un’ottica di rivendicazione fiera degli spazi, in barba all’eteronormatività che cerca di strozzare l’estro di una manifestazione politicamente rumorosa come il Pride. In questi momenti di raccoglimento è utile volgere lo sguardo alle contraddizioni che alle volte fanno parte di questi movimenti di massa; è difficile, ma bisogna essere ancora più capaci di mettere al centro i diritti civili e sociali senza perdere genuinità e coerenza, e proteggere la comunità dalla strumentalizzazione a fine commerciale delle istanze che il Pride vuole valorizzare. Non sono i soli diritti civili, né le aziende “friendly”, che ci rendono liber* di essere e amare, bensì i diritti sociali, la stabilità economica e la libertà di decidere sulle nostre vite[…]».

E proprio di giustizia sociale parla anche Margherita Balestrini, citando l’intersezionalità: «per noi l’intersezionalità è un tema importantissimo, pensiamo ai primi movimenti LGBTQIA+ connessi con i movimenti operai. Attraverso alcune aziende spesso vai a pagare un prodotto realizzato con lo sfruttamento di altre persone. È assurdo. Se tu concepisci una lotta come una lotta intersezionale che comprenda l’ambiente, la tutela dei lavoratori e in generale di qualsiasi tipo di minoranza discriminata e oppressa, non puoi andare a comprare al pride il solito gadget dell’azienda raimbow-washing»

L’obiettivo di queste aziende che strumentalizzano le lotte a fini commerciali, secondo le diverse voci sentite attive nell’attivismo, non è minimamente quello di cambiare l’esistente ma limitarsi ad appropriarsi di una lotta mettendo a reddito le rivendicazioni delle soggettività oppresse. Esempio lampante sono Coca-cola e Bayer, critiche aspramente lo scorso anno e ancora quest’anno tra i principali sponsor a Milano.

La critica su più fronti viene mossa anche perché le personalità più in vista dell’evento di Milano, tra cui coloro che si esibiranno sul palco, sono per la maggior parte persone cisgender, etero, abili e bianche. Di conseguenza, la critica rispetto alle sponsorizzazioni si allarga anche alla scelta dell’organizzazione su chi invitare, che in questo caso appare poco rappresentativa dell’ampia comunità LGBTQIA+. Ha fatto poi discutere anche la scelta del sindaco Sala di sponsorizzare un tram con i colori arcobaleno: una strategia pubblicitaria curiosa e simpatica, se non fosse che questo tram non è accessibile alle persone con disabilità motoria, il che ne sottolinea l’esclusività nonostante il tentativo di mandare il messaggio opposto.

Come ogni anno, il momento del Pride è ricco di polemiche e di spaccature. La cosa certa è che bisognerebbe sempre tenere presente le sue origini, che risalgono proprio a quella notte tra il 27 e il 28 luglio di 53 anni fa. La prima volta fu rivolta: per i diritti civili, per quelli sociali, per rivendicare il proprio spazio in una società eteronormata e patriarcale, tutti i giorni. Contro logiche commerciali e capitalistiche e per una vera liberazione di tutte le soggettività oppresse. La prima volta fu rivolta, e può esserlo ancora. [Daniele Molteni, ecoinformazioni]

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