
Il paradigma razzista del fascismo
Nella serata di venerdì 3 marzo alla Cascina Massé di Albate si è tenuta la conferenza Il fascismo in guerra: razzismo e crimini di guerra – Africa orientale e Balcani, organizzato da Anpi Como sezione “Perugino Perugini”. Eric Gobetti, storico ed esperto della Jugoslavia novecentesca, e Matteo Dominioni, storico che ha approfondito in particolare il colonialismo italiano in Etiopia e Somalia, hanno dialogato sul razzismo fascista con Fabio Cani, coordinatore della serata.
Il mito degli “italiani brava gente”, del colonialismo edulcorato rispetto a quello delle altre potenze europee e comunque arrivato dopo, ad emulazione di quello tedesco, francese e inglese, è una narrazione falsa e che non fa i conti con la storia del regime fascista. Per spezzare questa falsa storia e mostrare che, sebbene tardivamente, quello italiano era una forma di dominio violenta e forse ancora più connotata razzialmente rispetto a quella dei vicini europei, Cani ha invitato i due relatori ad un confronto per evidenziare elementi in comune e discontinuità tra due momenti del Ventennio successivi ma analoghi almeno nella loro istanza oppressiva ed espansionista.

Quella dei Balcani è una vicenda che nell’Italia del ventunesimo secolo è molto nota, ma raccontata in modo distorto; l’istituzione di una giornata commemorativa, il 10 febbraio, che ricorda i morti nelle foibe descrivendoli come vittime di Tito anziché come invasori della Jugoslavia, è una prova lampante di questo rovesciamento della storia. Al contrario, di ciò che è successo in Africa si sa molto poco, soprattutto perché la storiografia si è concentrata principalmente su ciò che accadeva nei grandi centri perdendo di vista ciò che in termini di violenza quotidiana è stata perpetrato alla popolazione “extraurbana”, il 99% di quella totale dell’Etiopia. Un confronto tra queste due realtà è allora importante per diversi motivi, ma la trama fondamentale che emerge è quella dei due valori effettivamente fondanti del fascismo: la violenza e il razzismo.
Che gli uomini di Mussolini fossero violenti è lampante e strutturale, basta pensare al fatto che fin dall’inizio la prassi squadrista si connota per pestaggi, roghi ed uccisioni ai danni di bersagli ed oppositori politici. Però, soprattutto nelle colonie ma anche in Jugoslavia si assiste ad una sistematizzazione di questa violenza, che rasenta la forma della pulizia etnica in Etiopia e, nei Balcani, si configura come barbarie indiscriminata.
Il tema del razzismo si intreccia molto strettamente con questa componente, anche nel configurare un modo d’azione razziale e di segregazione in Africa, mentre nelle colonie la violenza era più che altro considerata come un epifenomeno del sistema bellico. Il pregiudizio antislavo, secondo Gobetti, è un retaggio antico che persiste tutt’oggi, anche ad esempio nella razzializzazione della narrazione della guerra russo-ucraina; la visione inferiorizzante nei confronti delle persone non-bianche era invece, allora come oggi, molto più radicata e profondamente discriminante. Proprio su questa differenza si struttura in parte la differenza tra approcci bellici adottati nei due contesti: il divide et impera che in Jugoslavia consisteva nel far leva sui nazionalismi locali per disunire la popolazione e creare assi tra truppe fasciste e milizie parafasciste locali, in Etiopia si è trasformato in divide et stermina, ha affermato Dominioni. Inoltre, proprio in virtù di una minor reticenza alla pulizia etnica la procedura militare africana ha potuto dipanarsi in tutta la propria atrocità, mentre nei Balcani l’azione è stata meno lineare dal punto di vista dell’efficienza della catena di comando. D’altro canto, però, è la Circolare 3c emanata dal generale Mario Roatta per i Balcani sintetizza il denominatore comune dell’espansionismo fascista: la violenza indiscriminata è sostanzialmente impunita.

Le narrazioni inesatte che vengono divulgate, anche dalle istituzioni, ad oggi sono esito del problema annoso dell’Italia con il proprio passato. Il tema del riconoscimento e delle indagini sui crimini di guerra coloniali è emblematico in questo senso. L’Italia ha fatto tutto il possibile per non consegnare i criminali di guerra ai paesi che lo richiedevano, nella fattispecie la Jugoslavia ne ha chiesti più di settecento; quando lo ha fatto, ne ha consegnati pochissimi, tredici, e uno di loro è stato riabilitato molti anni dopo come “vittima delle foibe”.
I fatti d’Africa, meno studiati e non approfonditi nella loro realtà quotidiana al di là delle grandi stragi, hanno subito un’ancora maggior invisibilizzazione. Dominioni, per esemplificare quanto superficialmente queste tematiche siano state affrontate superficialmente, ha fatto notare che a molte figure che hanno maramaldeggiato fuori dal confine italiano sono dedicati monumenti e dedicate vie o piazze.

Fare i conti con la storia d’Italia significa sradicare l’idea del “fascismo che fa cose buone” anche là dove, per pareggiare il conto con le altre potenze di inizio ‘900, gli italiani sono stati inviati a occupare, razziare e sterminare. Certo, la scuola insegna poco e male e internet è un vero campo di battaglia, tra informazioni fuorvianti e negazionismi vari, ma la posta in gioco non è storica solo nel senso passatista del termine: è il presente, sia politico che globale (tra migrazioni e conflitti sempre più diffusi oltre che vicini) a chiamare la cittadinanza ad un’esistenza sociale cosciente. La consapevolezza storica è una necessità e il vissuto coloniale è parte ingente del sistema-fascismo, della sua ideologia e dei suoi sviluppi prima e dopo l’ingresso nella seconda guerra mondiale. Studiarlo e saperlo, anche non ai livelli estremamente profondi dei due storici intervenuti ad Albate, è un dovere politico. [Pietro Caresana, ecoinformazioni] [Foto di Beatrìz Travieso Perez e Pietro Caresana, ecoiformazioni]