
“Scatti migranti”/ Marcello Carrozzo e la sua Itaca
“Un fotoreporter sociale”: così si definisce Marcello Carrozzo. Il suo intervento [evidentemente poco atteso nonostante la vastità del ventaglio degli organizzatori, nella grande sala, quasi vuota, dello Spazio Gloria del circolo Arci Xanadù] la sera di venerdì 18 maggio (dopo essere intervenuto in mattinata all’istituto “Gabriele Castellini” e poi al liceo classico-scientifico “Alessandro Volta”), seguito alla presentazione di Leonardo argentieri (Aifo), ha animato l’iniziativa di Aifo, Arci ecoinformazioni e Il settimanale della Diocesi di Como, realizzata in collaborazione con la Caritas diocesana, il centro socio-pastorale “Cardinal Ferrari” di Como, il Csv Insubria, la rete Como senza frontiere e l’Opera Don Guanella: un corso, di fotografia sociale legata alla migrazione, articolato in quattro lezioni a cadenza settimanale (a partire da sabato 9 giugno) tenute da fotografi, fotoreporter e giornalisti già attivi sul territorio di Como in questo stesso ambito.
«Quando fotografo – racconta Carrozzo – , devo stabilire un contatto umano con i miei soggetti, perché la fotografia è etica quando si fa con il cuore, e non più con gli occhi». Profondità, complessità e schiettezza caratterizzano i suoi scatti, dove soggetti dal vissuto difficile (a volte intuibile dalla persona, a volte dal contesto) sembrano interagire con gli spazi circostanti. I suoi fotoreportage, così come le sue curate agende di viaggio, arricchite di appunti, istantanee Polaroid e memorie, sembrano infrangere la “quarta parete” tra la scena e l’osservatore: difficile stabilire se sia quest’ultimo a entrare nell’immagine con gli occhi (o con il cuore?) dell’autore, oppure se sia la fotografia a uscire dal suo perimetro; e tale ambiguità è amplificata dalla cifra stilistica, sofisticata nelle linee, nelle luci e nei colori. Altrettanta, se non maggiore, è la plasticità – non soltanto estetica, ma anche emotiva – delle persone ritratte, protagoniste di vissuti estremamente difficili (nella prima parte della serata, Carrozzo ha mostrato a un pubblico purtroppo esiguo reportage realizzati in una comunità di lebbrosi nel nord dell’India, in un centro di accoglienza nei pressi di Foggia e a Korogocho, nelle periferie di Nairobi), che le portano da un non-luogo all’altro del mondo in un’Odissea a cui, troppo spesso, manca il lieto fine, l’Itaca inseguita e mai davvero raggiunta.
Non è mai abbastanza ovvio ricordare come la fotografia non sia “etica” soltanto nel suo aspetto estetico e “fisico” – pur complesso che possa essere -, ma anche nel contesto che la circonda, nella creazione e nella fruizione (che comprende la narrazione didascalica, apportata dallo stesso autore e filtrata da un consulente etico). Carrozzo ha avuto la possibilità di portare il proprio obiettivo in situazioni normalmente inaccessibili a un fotoreporter, arrivando “in punta di piedi” (nelle sue stesse parole) davanti a soggetti disposti a mostrarsi – almeno in parte – nella loro fragilità: qualcuno ha detto che [Carrozzo] “ha fatto del dolore una forma d’arte”, affermazione che il fotoreporter confessa di non sapere come interpretare. Le sue Moleskine, una per ogni viaggio, con polaroid e commenti suoi e dei suoi soggetti testimoniano l’intensità della relazione che il fotografo instaura con le persone fotografate.
Nello specifico caso di Itaca, la narrazione fotografica e audiovisiva segue il soccorso (avvenuto nel luglio 2016) di un barcone di migranti in panne nel canale di Sicilia a opera di Frontex e ne rivela gli episodi di tensione, dolore, e anche di sollievo per la salvezza, un sentimento ambivalente nel suo preludere a una marginalità sociale e legale sul luogo di arrivo che ricorda spesso la realtà d’origine, e su cui pesano ulteriormente lo sfruttamento, il razzismo, il rischio di un’espulsione che resta, nella pratica, poco fattibile (e che è tendenzialmente brutale quando attuata) e che determina, anziché risolvere, quella “clandestinità” tanto paventata dai “soliti noti”; non da ultime, le aspettative dei parenti e degli amici, verso i quali i migranti emarginati spesso non hanno il coraggio di confessare la sconfitta, fingendo il successo e l’auto-affermazione: una dinamica che si ripresenta nel tempo e nello spazio, pensando agli italiani emigrati solo qualche generazione fa, e che rischia, non risolta, di esacerbare le tensioni sociali che prendono spesso forme pericolose per i migranti come per l’intera società.
Una gestione umana – che sia, cioè, insieme razionale e sensibile – del fenomeno migratorio, nella sua irrisolvibile complessità, non può prescindere e anzi dipende da un’informazione attenta e puntuale a riguardo, che sappia dare ai numeri il giusto peso, tanto a fini “statistici” quanto nel rapporto tra cifre, persone e risorse. Ciò è vero per le società ospitanti, quale che sia l’atteggiamento mostrato verso un’accoglienza propriamente detta, e anche alle radici della migrazione, in senso in parte diverso: Aifo e la campagna Biblioteche solidali delle Biblioteche di Roma hanno puntato sull’istruzione di ragazze e ragazzi di Korogocho, con l’intento di migliorarne le aspettative di vita e offrire loro uno spazio di vita e di socialità più sicuro. In ogni caso, sapere di che cosa (e soprattutto di chi) si parla e sapere come parlarne può e deve contribuire a fare chiarezza in questo senso, obiettivo che le realtà promotrici di Scatti migranti già perseguono a fianco di altri soggetti, sul territorio comasco, e che sperano, con questo progetto, di arricchire di nuovi, preziosi contributi. [Alida Franchi, ecoinformazioni][Foto Gianpaolo Rosso, ecoinformazioni]
Già on line sul canale di ecoinformazioni i video dell’iniziativa.
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