Voci di Memoria (anche) comasca

Nel pomeriggio di sabato 28 gennaio si è svolto nella biblioteca di Como l’incontro Voci e storie, pomeriggio inserito nella serie di iniziative per la Giornata della Memoria organizzate tra il 24 gennaio ed il 5 gennaio nel comasco. Sono intervenuti, per una lettura teatrale a tema, Gabriele Penner ed Arianna Di Nuzzo del Teatro d’acqua dolce, mentre Elisabetta Lombi, Rosaria Marchesi, Valter Merazzi e Francesco Scomazzon hanno fornito un contributo storico sull’intreccio di vissuti e tragedie che la Shoah ha avviluppato anche nell’area di Como.

La Memoria è un compito difficile per molti motivi. Prima di tutto, è sempre meno testimonianza diretta, ricordo di chi ha vissuto in prima persona la barbarie, e questo la rende ancora più un impegno per le generazioni che non hanno vissuto ma sanno che è accaduto e potrebbe dunque riaccadere. Poi, la Shoah e la realtà dei lager sfidano l’immaginazione. Non può essere successo davvero, nel cuore dell’Europa delle Rivoluzioni, dell’Illuminismo, del progresso scientifico; eppure è reale: la guerra, i morti, le deportazioni ci sono state realmente.
Le parole lette e recitate da Penner e Di Nuzzo, impersonanti un gerarca nazista mai pentito ed una giovane ebrea lituana costretta al ghetto e poi deportata ad Auschwitz-Birkenau, hanno mostrato anche un’altra dimensione della difficoltà della Memoria. È infatti difficile concepire la disumanità dei carnefici, la crudeltà di chi si fregiava dell’orgoglio militare e del senso patriottico ariano per giustificare le proprie aberrazioni; ma è anche indicibile e quasi incredibile la disumanizzazione che hanno subito le persone imprigionate, sfruttate, affamate ed uccise nei campi di concentramento, lavoro e sterminio. Un appello in mezzo alla neve polacca è qualcosa che racconta tanto della crudeltà di chi costringeva i prigionieri e le prigioniere a stare per ore in piedi al freddo, spesso fino alla morte, quanto della sofferenza e della reificazione subita da chi si vedeva privato del nome, dell’aspetto e della vita all’interno dei lager.
Nonostante sia una sfida all’immaginario, tutto ciò è successo. In Europa. Meno di cento anni fa.

La Memoria, per chi non l’ha vissuta, costruisce un paesaggio interiore; così ha affermato Elisabetta Lombi aprendo il suo intervento, intendendo che essa implica un’etica della testimonianza, della trasmissione che passa per la partecipazione a conferenze, per la scrittura di testi e, chiaramente, per la narrazione nelle scuole da parte di docenti e dei testimoni. Una sfida all’inconcepibile che va però vinta.
La realtà dello sterminio e in generale la storia dell’antisemitismo e delle dittature non è però un fatto lontano dalla provincia comasca, qualcosa di confinato al freddo centroeuropeo o alle linee di sbarramento naziste in centro Italia. Guerra mondiale significa che il mondo è stato coinvolto e ciò significa anche le realtà piccole, le province, le valli, Como stessa. Verrebbe da dire, riprendendo il tema trattato da Scomazzon, soprattutto Como come città di confine. Molti ebrei sono arrivati in Italia passando per Chiasso fuggendo dalla Germania nazista dopo le leggi di Norimberga (1935), altrettanti sono fuggiti dopo le leggi razziali del 1938, comprendendo che di lì a cinque anni per gli ebrei sarebbe stata disposta la deportazione di massa (30 novembre 1943).
Ma non solo, Como è anche stata il centro dell’economia industriale fascista dopo che, come ha raccontato Merazzi, vi si è stabilito Leyer, delegato per l’Italia di Speer, ministro degli armamenti tedesco. Per la città lacustre dunque sono passati i destini delle fabbriche costrette alla conversione bellica per evitare la deportazione dei propri operai, ma anche migliaia di lavoratori traferiti in Germania per diventare schiavi di Hitler. Anche dal lungolago, centinaia di persone sono state inviate a lavorare per i nazisti.

Il paesaggio interiore scaturito dalla Memoria risuona però con quello di chi già allora si oppose alla terribile realtà a cui stava assistendo. Deve essere stato cioè la spinta etica della Resistenza, dei e delle partigiane (pochi e poche nel comasco data la diffusione del consenso fascista), ma lo è stata anche per persone che hanno intrecciato rapporti diretti con ebrei in fuga dalla morte. È il caso, testimoniato da Rosaria Marchesi, di Luisa Colombo Andreani. Questa donna coraggiosa aiutò quattro persone a fuggire attraverso il confine svizzero in un’epoca in cui i passatori spesso si arricchivano grazie alla disperazione delle persone che trasportavano; ma riuscì anche a costruire relazioni attraverso le carceri ed i campi di concentramento con persone che non riuscirono ad evitare la tragica fine che i nazifascisti avevano previsto per loro. Rita, Olga e Corinna sono tre donne che finché poterono rimasero in contatto con Luisa e le cui storie Colombo riporta con commozione affermando l’importanza di ricordarne il nome. Infatti, era il nome la prima cosa di cui gli ebrei venivano privati all’ingresso nei lager, atto depersonalizzante ed aggravato dalla sacralità onomastica che riporta la Torah. Memoria è allora, nelle parole di Marchesi, un compito dello storico ma anche una missione umana e passa anche dal chiamare per nome i milioni di persone uccise, restituendo loro la dignità ed umanità di cui sono state spogliate.

Como, purtroppo, sembra però non ricordare. Non basta il suo ruolo di città di confine, non basta la sua centralità nelle storie di fuga e deportazione di migliaia di persone; la città sembra aver dimenticato, complici anche le scelte politiche di una realtà sempre più di destra e reazionaria.
L’unica traccia “urbanistica” di Memoria in una città costellata di edifici di Terragni, che pur nel suo genio architettonico è uno dei principali nomi culturali fascisti, è la pietra d’inciampo posta in via Brogeda a memoria di Aldo Pacifici. Pacifici che, tra le altre cose, fu anche amico di Colombo e si dimostrò una delle persone più consce del tragico destino a cui stava andando incontro. Como potrebbe essere piena di pietre d’inciampo, anche simboliche come quella proposta da Merazzi che, a ricordo del ruolo carcerario fascista della città, potrebbe essere collocata di fronte a san Donnino.
Eppure l’unica pietra d’inciampo comasca è nascosta, trasandata, dimenticata come rischia di essere la tragedia nazifascista che fu e non dovrebbe ripetersi. Torna allora il compito, il paesaggio interiore che si fa postura etica, storica, didattica: testimoniare un drammatico passato affinché non si ripeta, partendo anche dal contesto locale che, sebbene possa sembrare escluso dalla grande Storia, non può invece considerarsene assolto. Ieri come oggi.

Qui tutti i video dell’iniziativa. [Pietro Caresana, ecoinformazioni] [Video di Michela Borghi, ecoinformazioni]

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